mercoledì, giugno 25, 2014

changu narayan: il tempio più antico del nepal

Changu Narayan è uno dei templi più importanti di tutto il Nepal ed è situato in cima a una collina a nord di Bhaktapur da cui, oltre il bosco di pini sottostante, si può godere uno splendido panorama della Valle incorniciata a Nord dalla catena dell’Himalaya. Ci si arriva in un ventina di minuti in bus da Bhaktapur, o a piedi in un’ora e tre quarti di lenta passeggiata, seguendo la via che dalla porta nord della città, conduce a Jaukhel.
Narayan o Vishnu è il Dio protettore della creazione nell’Induismo, ed è noto ai più appunto come il Creatore. Il tempio a lui dedicato sopra il villaggio di Changu Narayan, o Doladri in sanscrito, è descritto essere uno dei più antichi di tutta la Valle.
Una leggenda narra che un tempo Vishnu, nell’atto di distruggere il demonio uccise un Bramino che si era trasformato in demone. Un’azione del genere era considerata essere uno dei cinque crimini più abominevoli, uno dei cinque peccati capitali. Vishnu pensando a quello che aveva fatto girovagò qui e là su Garuda, la figura mitologica mezzo uomo mezzo uccello, che è il suo veicolo. Quando arrivò a Changu, un eremita di nome Sudarsana, non riconoscendolo come il Dio Vishnu, lo decapitò. Vishnu in quel momento fu colto da un grande rimorso per il suo peccato. Disse che da allora in avanti avrebbe vissuto sulla collina di Changu, dove lui si era ricordato del suo peccato e che chiunque sarebbe venuto a pregarlo a Changu sarebbe stato perdonato dei suoi. La Nitrya Puja, una preghiera rituale che si tiene a Changu Narayan viene celebrata proprio in relazione a questa leggenda. L’immagine di Vishnu è costituita da due parti, una la testa e l’altra il corpo, così durante la puja ci si ricorda della decapitazione del Dio.

Nel Buddhismo Changu Narayan è invece venerato per il Bodhisattwa Avalokiteswara, il Bodhisattwa della Compassione di cui il Dalai Lama è incarnazione sulla terra. I Buddhisti credono in una leggenda che racconta che Garuda, il veicolo di Vishnu, e Takshaka, il re dei serpenti (naga) della Valle di Kathmandu erano impegnati in una cruenta battaglia. Quando Garuda invocò Vishnu di aiutarlo, Takshaka fu certo di essere seriamente in pericolo e iniziò a pregare Avalokiteswara, che compassionevole fece finire la battaglia e mise la pace tra i due avversari. Vishnu vergognandosi del suo comportamento durante il conflitto si offrì di trasportare il Bodhisattwa a Changu e così creò la particolare icona di Hari hari hari Vahan Lokeswora. A Changu Narayan il Bodhisattwa Avalokiteswara si vede ben distinto dalle figure induiste su una scultura in pietra dietro il tempio mentre Garudasana Narayan, Vishnu sul suo veicolo Garuda, sta nel cortile del tempio. Uno fu fatto nel X secolo e l’altro, di cui si trovano molte copie in Valle, nel XIII secolo. Nonostante le leggendarie origini del tempio, gli storici attestano che prima costruzione del tempo sia datata intorno al II secolo. Si crede che fosse stato fatto costruire da Haridatta Varma, un Re della dinastia dei Licchavi, che regnò intorno al 325 dc, molte generazioni prima di Manadev I. Gli storici dicono che Haridutta aveva ordinato la costruzione di altri quattro templi in onore di Narayan sulla cime di altrettante colline situate nella Valle di Kathmandu: Ichangu Narayan, Sikhara Narayan e Lokapalasvamin. L’iscrizione che sta sul pilastro dove è scolpita la statua di Garuda Dhwaja, che racconta delle vittorie di Manadev I, risale a circa il 464 DC e testimonia come il tempio fosse più antico di quanto si potesse pensare, è sicuramente la più vecchia iscrizione che è stata scoperta in Nepal. Questa iscrizione testimonia inoltre come fosse costume presso le famiglie reali rendere omaggio alla divinità. La maggior parte degli omaggi furono fatti sottoforma di restauri e ricostruzioni perché il tempio nei secoli subì ripetutamente danni a causa dei terremoti. Nel 607 il Re Amsuvarma restaurò parte dei rivestimenti delle immagini sacre del tempio e fece una cospicua donazione.

Il tempio poi venne lasciato al suo destino e iniziò a deteriorarsi fino a che Visva Malla di Bhaktapur, tra il  1548 e il 1560, non se ne occupò. Poi Gangarani di Kathmandu, la nonna di Pratap Malla, lo fece restaurare dopo che subì un incendio. Nel 1694 il tempio necessitò ancora di interventi di restauro e ricostruzione che furono offerti dalla Regina Madre di Kathmandu Radhiklaksmi. La Regina offrì anche numerosi doni, tra cui un bellissimo torana d’oro, un ammontare in oro e argento pari al suo peso e una statua che raffigurava lei stessa col figlio inginocchiati davanti al tempio che fu posta dietro il Garuda Dhwaja di Manadev I. Sempre nello stesso periodo Bhupalendra Malla di Kathmandu offrì una nuova testa di Vishnu al tempio visto che la precedente era andata distrutta durante una puja. Vent’anni dopo questo restauro, il tempio prese fuoco nuovamente e in questo periodo, che va dal 1700 al 1722, Bhaskar Malla lo ricostruì nuovamente e fece rifinire a arte anche il tetto.

Il tempio che racchiude in se 1700 anni di storia nepalese, è decorato con alcuni tra i più preziosi lavori di scultura, intaglio e forgiatura di tutta la valle. Vedendo questo tempio si ha quindi la possibilità di osservare in un colpo solo tutta la storia e l’evoluzione culturale e artistica della Valle di Kathmandu.
Nelle travi di legno di sostegno dei due piani della pagoda del tempio sono rappresentate finemente intagliate le dieci incarnazioni in cui Narayan si trasformò per distruggere chi si comportava come un demone. C’è una splendida statua del VI secolo che rappresenta la forma cosmica di Vishnu, mentre un’altra richiama la leggenda della sua incarnazione in un nano quando schiacciò il Re Bali. Una statua di Vishnu che eviscera Narsingha, l’uomo leone, è molto particolare e interessante. I portali a est sono di bronzo e le campane sono decorate con dragoni. Dei leoni in pietra sono situati a guardia davanti ai portali. Divinità e grifoni spuntano dai muri e decorano gli scalini del tempio.
La statua di Garuda inginocchiato a grandezza naturale è situata prima del tempio davanti a Vishnu in segno di rispetto, mentre invece la statua più famosa è quella di Vishnu a cavalcioni del suo veicolo.

mercoledì, giugno 18, 2014

Bouddhanath, lo stupa più grande del Nepal

Bouddhanath è per me uno dei luoghi più suggestivi della Valle di Kathmandu.
Situato a poco più di 10km dal centro città ed è uno dei maggiori centri Buddhisti del paese. Dopo la rivoluzione culturale di Mao, molti tibetani scappati dalla loro terra si sono insediati qui, attorno a questo Stupa, e animano la cita del villaggio secondo le loro tradizioni e la loro cultura.
I fedeli sono soliti fare la sacra Khora attorno allo Stupa in senso orario, facendo girare le ruote di preghiera che sono nelle nicchie sul muro di cinta dello Stupa. Chi visita questo luogo non può fare a meno di seguire i pellegrini nel loro cammino sacro e di assorbire tutta l’energia positiva che aleggia qui.
Lo Stupa di Bouddhanath visto da sopra ha l’aspetto di un mandala, il diagramma buddhista che rappresenta l’universo, e come in tutti i mandala, ha i Dhyani Buddha ai 4 punti cardinali e il Buddha supremo Varirocana che sta al centro, nell’emisfero bianco dello Stupa.
I 5 Buddha rappresentano anche i 5 elementi che troviamo anche nelle bandiere di preghiera (terra, acqua, fuoco, aria e spazio) e che sono rappresentati nell’architettura dello Stupa stesso.
Nella struttura dello Stupa ci sono altri “numeri” che hanno un simbolismo particolare. I 9 livelli dello stupa rappresentano il mitico monte Meru, che è il centro del cosmo, e i 13 anelli che stanno dalla base al pinnacolo simboleggiano il cammino verso l’illuminazione la "Bodhi" da cui deriva il nome di Bouddhanath.
La base lo Stupa è circondata da un muro a 16 lati, che ha delle nicchie contenenti ruote di preghiera e affreschi.
Bouddhanath è associato al Bodhisattva Awalokiteswara, le cui 108 forme sono scolpite attorno alla sua base.
La base dello Stupa è costituita da 3 piattaforme, poste una sopra l’altra, che stanno a rappresentare la "terra". Sopra queste piattaforme ci sono due basamenti circolari che supportano l’emisfero dello stupa e rappresentano l’"acqua". Sopra l’emisfero c’è una struttura cubica che porta la raffigurazione degli occhi di Buddha nei 4 punti cardinali, che sono così onnipresenti. In mezzo hanno disegnato il numero "uno" (sembra un punto interrogativo rovesciato) che rappresenta l’unità e l’unica via per raggiungere l’illuminazione seguendo i precetti del Buddha (la via del Dharma). Sopra sta il terzo occhio, che rappresenta la saggezza del Buddha.
Sopra questa struttura cubica c’è una sorta di piramide a 13 gradoni, che come dicevamo prima sono gli scalini che portano all’illuminazione. La forma triangolare di questa struttura rappresenta l’elemento “fuoco”. In cima c’è una "tettoia dorata", la rappresentazione dell’aria, e alla fine un pinnacolo dorato che rappresenta lo "spazio" e il Buddha Vairocana.
Dall’alto sono appese delle bandiere di preghiera che fluttuano al vento portando i mantra e le preghiere tutto attorno.
L’ingresso della piattaforma più alta dello Stupa sta a nord ed è presidiato da Amogashiddhi, predecessore del Buddha del Futuro Maitreya, che sta subito sotto.
La storia dell'origine di Bouddhanath pare un po’ controversa. Secondo le cronache Gopalarajavamsavali, Bouddhanath fu fondata sotto i Lichhavi nel VI secolo. Nel XV secolo degli scavi fatti qui hanno riportato alla luce resti e reliquie del Re Lichhavi Aṃshuvarma e documenti risalenti al VI secolo che testimoniano l’esistenza dello Stupa. Altre cronache lo riferiscono al regno di Mana Deva nel V secolo. Altre fonti ne datano la fondazione nel XIV secolo. In ogni caso le fonti più accreditate lo danno come fondato durante il tempo dell’impero di Trisong Deutseng, che regno in Tibet nel VI secolo.
 

lunedì, giugno 16, 2014

dalla parte degli Sherpa e dei porters

Il mese scorso, vedendo l'articolo di Internazionale "I Proletari dell'Everest"
non ho potuto fare a meno di pensare ai miei amici Sherpa.

Ormai ne ho un cospicuo numero. Gente semplice, umile, sono ragazzi che un sorriso non lo negano mai a nessuno. Poco meno di un mese fa mentre mi riposavo dai 45ºC sulla branda a Mandalay in Birmania, finalmente è arrivata la connessione wifi, e con lei i messaggi dal Khumbu: "Didi, you can't imagine, we're all shocked" mi scriveva Pasang da Gorak Shep. Tenzing da Namche invece scriveva: "So sorry for what's happened in Everest". Som da Gokyo, il mio fratellino, la mia fidata guida:"Didi I'm ok, but here 18 Sherpa people are still missing".
Povera gente, instancabili lavoratori, padri di famiglia, figli devoti. Le loro dure vite sono valse solo i 4000 dollari dati alle loro famiglie in risarcimento per la loro perdita. "È stata una disgrazia, una tragica fatalità che può accadere a chi di mestiere fa il portatore o la guida in alta quota".

A chi deve montar scale e fissar corde per il circo dell'Everest, dove un esercito di stranieri mascherati con gli erogatori, pianteranno la loro bandierina sul tetto del mondo. Che importa se poi chi ci lavora muore? "È il rischio del mestiere". Gli Sherpa sanno che possono restarci secchi, quindi volendo potrebbero scegliersi un lavoro più sicuro. "Alla fine lo fanno solo per i soldi".
Quando nasci nel Khumbu, nel Solu, cresci aiutando tuo padre e tua madre a coltivare i terrazzamenti, porti pietre sulla schiena, frasche, legname e da lì poi porti le sacche dei turisti e con quei soldini che ti danno di mancia comperi più riso, magari a fine anno, insieme ai tuoi fratelli, riesci anche a comperartici una capra. Poi vedono che sei forte e resisti e ti prendono a lavorare per qualche grosso travel agent locale.
Le mance dei trekkers a volte sono meglio di una paga. Se tiri la cinghia puoi diventare anche guida. Tuo figlio potrà studiare in una scuola migliore e potrai prendere le gocce di collirio per la cataratta di tua madre, che a furia di spezzarsi la schiena sotto il sole che picchia a più di 3500 metri s'è rovinata pure la vista. Certo uno Sherpa, un Magar o un Rai può fare anche altro nella vita. Non lo vieta nessuno, forse glielo impedisce solo la comune natura umana, che abbiamo tutti, con la nostra voglia di migliorarci, di migliorare le nostre condizioni di vita, la voglia comune a tutti gli esseri umani di cercare opportunità per una vita migliore.
Con ste riflessioni mi sono tornati in mente i momenti concitati l’anno scorso a Maggio a Gorak Shep, allo Yeti Resort. Stavo bevendo un tea con Som, Pasang Sherpa e mio padre. La dining era piena zeppa di trekkers alle 11 di mattina. C’era un gruppo di alpinisti dell’esercito americano del team “7summits” che erano al tentativo della loro 7° vetta, l’Everest. Il tetto del mondo se l’erano tenuto per ultimo. C’era una confusione e un bel movimento coi coreani che volevano foto con chiunque in ogni posa. Pasang Sherpa parlava con due suoi porters e con Som della zuffa di Ueli Stek e Simone Moro con gli Sherpa su all’Everest. Era arrabbiato perché a causa di questa cosa gli Sherpa ne sarebbero usciti con la reputazione macchiata. Il senso dei loro discorsi era: “Si fa presto a demonizzare gente senza nome che lavora, quando ci sono di mezzo noti alpinisti di fama internazionale”.
Ricordo che a un certo punto ho smesso di ascoltare le loro discussioni, certa che tutta la verità non sarebbe mai saltata fuori.
Io non conosco personalmente questi due alpinisti, ma mi pareva davvero strano sentire che fossero stati aggressivi verso gli Sherpa. E conoscendo quanto sia mite il popolo Sherpa sono stata ancora più incredula a pensare che degli Sherpa, delle guide di alta montagna, fossero stati aggressivi con degli occidentali. Senza gli Sherpa, la maggior parte degli scalatori non sarebbe in grado di salire sulla montagna, loro sanno e conoscono la loro terra meglio di chiunque altro. Tutto ciò era assurdo. Poi proprio lassù, in un posto così sacro per tutti. Quasi un sacrilegio.

I Bharya, i portatori, vengono sommariamente chiamati Sherpa dai trekkers. Certo molti di loro sono di etnia Sherpa, ma non tutti, tanti sono Magar, Gurung, Rai o Limbu o di altre parti del paese, zone povere, molto povere. Il termine “portatore” in nepalese si dice “Bharya”. Sherpa, in Tibetano invece vuol dire genti dell’Est, e sono un’etnia che da sempre si sposta tra Tibet e Nepal con le mandrie di Yak trasportando sale e barattandolo con l’orzo, la tsampa, la base della loro alimentazione.
Anticamente originari delle montagne tra Tibet e Nepal e poi migrati nelle valli nepalesi, adesso i più fortunati di loro hanno in mano il grosso del turismo, dei trekking, dell’alpinismo, dei resorts e lodges sul tetto del mondo. Ne ho incontrati tanti che son rimasti umili portatori, che camminavano curvi e schiacciati dai pesi sulle spalle che erano enormi rispetto alla loro corporatura. E ha voglia la gente a dirmi che sono abituati, che hanno fibra forte. Quelli che ho visto erano tutti più giovani di me ma sembrava avessero almeno 10 o 20 anni in più rispetto alla loro età.
Ne ricordo uno che aveva sulla schiena sette materassi, un altro che trasportava quattro bombole del gas, poi ce ne n’erano due che avevano quattro porte di legno caricate sulla schiena, un altro che aveva talmente tante taniche addosso che gli si vedevano solo le gambe dai polpacci in giù. Ho incontrato un gruppo di Bharya che si coprivano il viso con un fazzoletto e erano curvi sotto gerle ripiene di carni macellate chissà quanti giorni fa. Impressionante.
Quando ho conosciuto Tsering anni fa, mi ha raccontato che, mentre trasportava 60kg di materiale, era scivolato sul percorso spaccandosi l’infradito e slogandosi la caviglia. Aveva un cotechino al posto del piede e non riusciva a reggersi in piedi, ma era più preoccupato dal fatto che non sapeva se sarebbe riuscito a portar su il materiale al Campo Base, piuttosto che per la sua caviglia. Gli avevo dato del ketoprofene, raccomandandogli di stare a riposo qualche giorno e di fare impacchi freddi. Ora la mia Mamma Sherpa, la mamma di Tsering, ogni volta che torno a Punghi Tanga mi accoglie con una Khata e mi abbraccia come una figlia, una figlia che ogni tanto torna a casa a trovarla, sul tetto del mondo.
Quando sei in Himalaya e fai trekking, la maggior parte dei portatori che incontri ha tre sacconi da spedizione sulla schiena, legati tra loro con una corda e sorretti sulla sommità della loro testa, cosa che gli mette in tensione tutti i tendini e i muscoli del collo. Uno dei figli di Ama Sherpa, la mamma Sherpa di Pat, qualche anno fa è scivolato su un gradino del sentiero per Lobuche, ha perso l’equilibrio e nella caduta, la corda che reggeva i sacconi gli ha spezzato l’osso del collo per il peso. Quanti morti, quante vite spezzate. Per fortuna gli altri suoi due figli hanno uno una guest house a Namche Bazaar e l’altro una agenzia di trekking e non fanno i portatori.
I portatori sono come piccole formiche che trasportano foglie e sassolini che sono il triplo di loro.
I Bharya, come le formiche a piedi ai piedi degli 8000.
Senza di loro la stragrande maggioranza di noi occidentali non salirebbe a fare trekking turismo nelle valli nepalesi. E pochissimi sarebbero in grado di salire i giganti della terra senza il loro aiuto. L’Everest viene totalmente attrezzato due volte l’anno. Almeno un centinaio di nepalesi salgono sul tetto del mondo, montando scale, corde fisse, spianando e attrezzando la via che i turisti alpinisti di tutto il mondo dovranno affrontare per arrivare in cima al tetto del mondo con le spedizioni commerciali, aiutati da almeno una guida ciascuno che li spinga e tiri su e da un portatore che porti loro in cima le bombole d’ossigeno che gli serviranno per arrivare in vetta a passo di lumaca. L’Alpinismo è un’altra cosa, come diceva Bonatti, questo è il turismo degli ottomila. Io dico che ognuno ha i suoi limiti e il suo Everest. Il mio è sempre lì, e io lo guardo con rispetto e riverenza dal basso, ai piedi delle sue pendici, ascoltando i segnali che la montagna mi manda per farmi capire fino a quanto mi posso a lei avvicinare e mai pensando di essere più forte, più audace, più furba di lei.

Non andate mai in Himalaya senza un Bharya e se potete fatevi sempre accompagnare da una guida locale o da uno Sherpa "per un sacco di buoni motivi".
Gran lavoratori, mesti, disponibili, forti, unici, fedeli e affidabili compagni di avventure. Questi sono per me gli Sherpa. Non ce n’è uno, tra quelli che conosco, che non mi abbia trattata come una regina da quando vengo a camminare in Himalaya.

giovedì, giugno 05, 2014

Perché Rongpuk non vi suggerisce di fare trekking da soli

Dopo innumerevoli richieste in merito mi pare doveroso scrivere un articolo sul "fare o meno" trekking da soli.
Per come la vedo io, dopo tanti anni di Himalaya, non mi sento di consigliare a nessuno di andarci completamente soli.
I motivi sono almeno 3.

1- Sicurezza personale.
In montagna il meteo è imprevedibile, in qualche minuto può arrivare nebbia o le nuvole si possono abbassare e la visibilità può scendere a tal punto da far perdere la via. Ci sono stati un bel po' di casi di gente che, essendo sola, si è persa ed è finita nei guai, per cui poi recuperarla è stata un'impresa.
Ma meteo a parte, se sei solo e ti cade un sasso in testa, oppure scivoli e finisci nel fiume, o in un burrone o scivoli e ti sloghi una caviglia o ti rompi un osso, o semplicemente ti accade qualsiasi cosa di imprevisto, che fai?
La rete mobile/cellulari in Nepal in montagna non copre ovunque. Non sempre i sentieri trekking sono così affollati come si crede e stai certo che quando ne avrai bisogno, non passerà nessuno per ore (la legge di Murphy esiste e anche la sfiga). Quindi se si è soli e succede qualcosa si rischia di finire in guai grossi oltre al fatto che di certo si creeranno problemi alle autorità e a chi dovrà venire a cercarti.
Per fare trekking in un minimo di sicurezza il numero minimo di persone in cui si deve essere è 3.
Così se il Trekker si fa male o gli accade qualcosa, il secondo compagno starà con lui, mentre il terzo andrà a cercare aiuto. E avere con se un secondo compagno Guida Locale di Montagna autorizzata dal Governo e assicurata e come terzo compagno un Portatore Nepalese, ti risolve i problemi e vuol dire avere "la sicurezza" che qualsiasi cosa accada, loro sapranno di certo come fare per avere i soccorsi il prima possibile, sapranno dove andare a chiedere e a chi, minimizzando tempi e costi.
Mai dare per scontato che vada tutto bene, che siamo tutti preparati, forti, autosufficienti. Mai sottovalutare la Montagna. Viviamola con rispetto e timore reverenziale

2- Dai valore aggiunto al tuo viaggio.
Andare con una Guida Locale e con un Portatore sarà un valore aggiunto al tuo viaggio. Ti aiuteranno a entrare con la testa e il cuore nel paese che andrai a visitare, facendoti notare cose che i tuoi occhi non sarebbero in grado di notare, capire e a volte vedere, da soli.Fauna, specie protette che si nascondono bene (tipo il Danphe o le Blue Sheep), flora autoctona, nomi di monti e vette minori che celano leggende e storie a noi ignote, tradizioni, usi, costumi, differenze tra le genti, etnie che noi non conosciamo. Ti aiuteranno ad avere le stanze migliori, cureranno che il tuo cibo venga fatto come lo desideri, saranno il tuo ponte tra il tuo mondo e l’Himalaya.

3- Aiuta le microeconomie locali.
Stai andando in un paese in via di sviluppo, uno tra i paesi più poveri dell’Asia. Il Nepal non ha grandi industrie e non ha capitali per sfruttare le sue risorse, come ad esempio l’acqua. Il Nepal fonda il grosso della sua sopravvivenza con gli aiuti esteri e col turismo. Quindi tu che sei un viaggiatore, un turista, un esploratore o un trekker, dando lavoro a una Guida e a un Portatore contribuirai a aiutare e a sostenere la microeconomia locale di un paese povero e che ha tanto bisogno. In Nepal le famiglie sono molto numerose, sono com’erano in Italia cent’anni fa. Le Guide col loro salario daranno da mangiare alle loro famiglie, pagheranno la scuola ai loro figli, pagheranno i dottori e le medicine che servono per curare i loro padri e alle loro madri anziane.
Quindi pensateci bene quando avete in mente di andare a far trekking in Nepal da soli.