venerdì, ottobre 26, 2012

ladakh, aspettarsi l'inaspettato: il tibet libero ma non in tibet

Il ritorno in India
Ci voglio provare, a tornare ai piedi dell’Himalaya, ma sta volta verso le grandi Himal dell’India.
A metà luglio sono in partenza per New Delhi.
L’idea di passare la notte nel famigerato Indira Gandhi non mi alletta per niente, ma non c’è verso, arriverò lì intorno alle 22 per ripartire alle 5 del mattino del giorno sucessivo alla volta di Leh.
Fortunatamente arrivata a Delhi ho la bella sorpresa dello scalo dei domestic flights nuovo di zecca, quindi un pisolino su una delle belle chaise longue non me lo toglie nessuno. Ovviamente gli indiani essendo trash inside mi svegliano alle tre e mezza del mattino con la musica di Bollywood sparata a tutto volume dai nuovi altoparlanti della waiting room. This is India, Incredible India again.
Il volo Jet Airways per Leh parte puntualissimo. Adoro questa compagnia, così precisa, pulita. Quando inizio a vedere i monti mi prende un’emozione indescrivibile. Il ghiaccio brilla agli spiragli di sole e genera una luce splendida. Le ali sembrano sfiorare le creste rocciose durante la fase di avvicinamento prima dell’atterraggio. Il pilota compie varie virate prima di allinearsi alla piccola pista in valle. I colori della valle dell’Indo sono sfumature di beije e oro. Uno spettacolo.
Quando scendo dall’aereo l’aria fresca e il sole rovente a 3.500 metri mi riempiono di gioia.
La jeep mi sta aspettando e mi porta a Old Leh.
Sono le otto del mattino quando sorseggio un black tea coi biscottini nel giardinetto della guest house insieme agli amici e a Mr. Meheraj.
Sono in giro da 28 ore e ho un gran bisogno di stendere le stanche membra su un letto almeno fino all’ora di pranzo. La mia prima giornata in Ladakh è di puro relax.
Tak Thok e Chemre
La mattina successiva inizio a entrare un po’ nel viaggio. C’è un festival al monastero di Tak Thok.
Tak Thok in ladakhi vuol dire tetto di pietra e il nome gli è stato dato in riferimento all’antica grotta usata come Gompa nel vecchio complesso monastico. I monaci, una cinquantina, sono dell’ordine Nying-ma-pa. L’afflusso di gente è tanto. I festival sono molto famosi nella ragione e la popolazione partecipa sempre con grande entusiasmo perché queste feste servono anche per “ravvivare” lo spirito delle popolazioni e il loro ricordo delle tradizioni. Sono spesso sottoforma di danze che vengono eseguite nel cortile del Gompa dai monaci stessi che sono vestiti con abiti teatrali in broccati di seta e portano tutti maschere in legno dipinte che rappresentano le varie divinità protettrici del Buddha. Spesso le danze narrano episodi epici del Buddhismo con la morale finale del bene che prevale sempre sul male. Le genti, soprattutto le donne anziane, indossano abiti tradizionali, gioielli di turchese e corallo e copri capi antichi.
Lo spettacolo può durare anche un giorno intero. Io resto tutta la mattina e poi mi sposto verso il monastero di Chemre.
Il Gompa di Chemre è un gioiello del XVII secolo arroccato su uno sperone di roccia e fu fondato dal Lama Tagsang Raschen. Vi risiedono una ventina di monaci dell’ordine Drugpa ed è famoso per i suoi affreschi che ritraggono Padmasambhava e per la collezione di testi sacri miniati in oro conservati nel piccolo museo. C’è una statuetta di Milarepa tutta dorata che mi resterà in mente per tutto il viaggio tanto è bella.
La sera mi concedo un tandoori murgh alla Tibetan Kitchen di Leh. Il ristorante è straconsigliato ma a mio avviso ha solo il nome. Il pollo non è male ma non è divino.
Spituk, il fiume Zanskar e Likir
Si parte alla volta di Alchi.
La prima sosta la faccio al monastero di Spituk che è a poco meno di dieci kilometri da Leh. Arroccato su uno sperone di roccia da cui si domina tutta la valle dell’Indo e da cui si ha una visuale perfetta della pista di atterraggio di Leh. Mamma mia quanto è corta!
Il monastero è dell’ordine Gelugpa, quello dei cappelli gialli e del Dalai Lama, per intenderci, ed è stato costruito nell’undicesimo secolo e fondato da Od-de. Il suo nome significa “esemplare” e deriva dal fatto che Rinchen Zangpo disse che in questo luogo si sarebbe sviluppata una esemplare comunità religiosa.
Ha tre cappelle principali e contiene numerosi preziosi Tangka, immagini di Tsongkhapa e Amitaba. All’ingresso ha una grossa ruota di preghiera sotto un capitello e, guardando al di là, si vedono tutte le montagne come se fossero incorniciate.
Mi dirigo subito al Gompa principale, il Dukhang, perché sento il suono delle trombe e dei cimbali che mi dice che i monaci stanno ancora facendo la puja mattutina. Mi tolgo le scarpe ed entro andandomi a sedere a sinistra sotto la parete affrescata di fianco a un folto gruppetto di monacini che avranno tra i quattro e i sei anni. Sono bellissimi, curiosi, vispi.
I mantra recitati a voce gutturale bassissima mi rimbombano nel petto e ritrovo le sensazioni provate in Tibet durante le mie prime puje.
Un monaco arriva di corsa con l’enorme teiera fumante di tea al burro di yak e, sorridendomi con un inchino, mi porge una tazza e me la riempie.
Finita la puja, i monacini corrono all’impazzata fuori dal Gompa.
Io mi inerpico sugli scalini che portano al punto più alto del monastero. Voglio godermi la vista sulla valle dell’Indo nel totale silenzio. Una striscia verde sulle sponde del grande fiume e tutto intorno aride vette sabbiose di detriti.
La strada sterrata per Alchi costeggia l’Indo su strapiombi improbabili e gli scenari che appaiono sono davvero lunari. Dopo ogni curva una sorpresa.
L’Indo sembra un fiume di fango. Arrivo alla confluenza con lo Zanskar, qui l’acqua marrone che si fonde e confonde con acqua grigia forma un pastone di rapide velocissime. In mezzo c’è un gommone blu. Qualcuno si sta divertendo facendo il rafting che avrei voluto fare anche io...
Tra Nimmu e Basgo la strada è bloccata per una piccola frana che stanno riparando con un caterpillar.
Inizio a incontrare lavoratori che sistemano il manto stradale come possono, togliendo a mano le pietre che rotolano giù dall’alto, spalando ghiaia e spaccando sassi.
Ci sono famiglie intere, bimbi piccoli compresi, che vivono e lavorano a bordo strada in tende improvvisate di teloni di plastica coi buchi o fatte con vecchi paracaduti dell’esercito, senza servizi igienici, senza acqua, una misera mascherina di carta sul viso, guanti di plastica che noi useremmo per lavare i piatti, badile e piccone in mezzo al niente, alla polvere, ai camion indiani che fanno su è giù per portar materie prime in queste valli remote. Che vita. Che futuro possono avere questi bambini, queste donne, queste famiglie?
Faccio una deviazione verso Likir per andare a visitare il monastero Gelugpa di Klu-Kkhyil che ha una statua d’oro del Buddha che, coi suoi sette metri e mezzo d’altezza, domina la vallata sottostante e da sotto, si staglia sui ghiacci dei monti circostanti.
Questo monastero è stato fondato intorno all’anno 1000 da Lama Duwang Chosje sotto il regno di Lhachen Gyalpo e il suo nome significa “spiriti dell’acqua”, facendo riferimento ai naga Nanda e Taksako, i serpenti sacri che qui regolano le piogge. Vivono qui circa 120 monaci e inoltre è ospitata una sede del Central Buddhist Studies che impartisce lezioni a una trentina di studenti.
Ci sono due Gompa principali, i Dukhangs. Il più vecchio ha delle belle statue dei Bodhisattva Amitaba, Sakyamuni, Maytreya e Tsong Khapa (il fondatore dell’ordine Gelugpa) oltre a pregevoli tangka e mandala affrescati. Il monastero ha inoltre una fornitissima biblioteca con antichi libri e manoscritti conservati al suo interno.
Qui per la prima volta vedo un manifesto di appello per la liberazione del piccolo Panchen Lama, la guida spirituale del Tibet, che è detenuto dalla Cina da quando aveva sei anni. Qui si può fare. Si posso appendere manifesti del genere, se ne può parlare. Il Tibet qui è libero ma non è a casa.
Alchi
Riprendo la strada e riattraverso il ponte sull’Indo arrivando ad Alchi nel primo pomeriggio.
Qui lo scenario è splendido. Mi abbasso a guardare le cime dell’Himalaya che spuntano innevate dietro le spighe dorate di tzampa.
Il campo tendato dove dormirò è bellissimo, è appena fuori dal villaggio ed è circondato dalle coltivazioni d’orzo.
Mi bevo un tea coi biscottini sotto un bel gazebo gustandomi la brezza gelida di montagna.
C’è un silenzio, una pace.
Il villaggio è graziosissimo. Piccole casette tibetane coi recinti con gli animali da cortile. Bimbetti bellissimi che giocano a ricorrersi, alcuni dei quali stanno a malapena in piedi tanto son piccinini.
Mi soffermo nelle viuzze a osservare la vita che scorre e mi ritrovo poi in una piazzetta colma di banchetti di artigiani che vendono ogni sorta di monile attorno a un vecchio albero di pipal.
Poi mi riprendo dal mio vagare. Sono qui per vedere il complesso monastico di Alchi Choskhor (recinto sacro di Alchi), il cui Buddha tutelare è Vairocana.
Il tutto risale a circa l’anno 1000 ed è stato costruito proprio sulle rive dell’Indo da Rinchen Zangpo che chiamò a se una trentina di scultori e intagliatori kashmiri che diedero un “tocco indiano” alle opere e alle decorazioni di questo complesso templare, patrimonio dell’UNESCO, i cui templi principali sono: Lhakhang Soma (New Temple), Sumtsteng Lhakhang, Dukhang (Gompa), Lotsava Lhakhang, Manjushri Lhakhang e i tre Chorten (Stupa) che sono all’ingresso.
Sono notevoli le tre gigantesche statue all’interno del Sumtsteng Lhakhang rappresentanti Avalokiteshvara (il Buddha della compassione di cui è incarnazione il Dalai Lama), Vairapani e Manjushri, la triade più famosa del lamaismo, che non sono fotografabili e sono visibili con l’utilizzo della torcia e decorate con storie epiche, delle guerre e delle invasioni che il piccolo regno ladakho subì nei secoli.
Questo tempio è quello che esternamente salta più all’occhio perché è su tre piani e il suo portico ligneo è finemente decorato in stile kashmiro.
Anche il Dukhang, che è all’interno del cortile successivo, mi lascia a bocca aperta, soprattutto quando vedo il piccolo portale interno ligneo decoratissimo, con in testa una statua di Garuda coloratissima, che porta alla cappella centrale, ai cui lati ci sono due sale con le statue di Maitreya a destra e di Avalokiteshvara a sinistra. Nella cappella c’è al centro Vairocana e poi gli altri quattro Buddha Supremi: Amoghasiddhi ed Amitabha a destra e Akshobya e Ratnasàmbhava a sinistra tutti di legno intagliato e decorato. Tutte le pareti sono finemente affrescate.
Questi templi non hanno nulla da invidiare ai nostri patrimoni architettonici e artistici. Sono strepitosi e andrebbero preservati e protetti con più cura.
Nel giardino dopo il Dukhang ci sono gli ultimi due piccoli templi, ma non per questo meno preziosi, che mi sono rimasti nella memoria: il Lotsava Lhakhang dedicato a Rinchen Zangpo, il traduttore, la cui statua è sull’altare, in compagnia di Sakyamuni e di Avalokiteshvara e il tempio di Manjushri, in cui al centro è posto un complesso di 4 statue dei Buddha Supremi, rivolti ognuno verso uno dei punti cardinali, che sono di una bellezza unica.
Sono uscita un po’ stordita da questi luoghi e ho percorso il kora del Choskhor, facendo girare le ruote di preghiera e ammirando le vecchie pietre mani scolpite chissà quanti anni fa, costeggiando l’Indo e fermandomi ogni tanto, ad osservarne le rapide vorticose e aggressive, dietro le bandiere tibetane di preghiera che sventolavano con il loro disegni del cavallo del vento.
Alchi si è persa nella notte dei tempi, è un luogo meraviglioso, denso di misticismo e atmosfera.
Quando esco dal complesso templare e ripercorro le viette del villaggio a ritroso, sono estasiata.
Ho visto sicuramente una delle più grandi opere artistico/architettoniche del Ladakh.
Ora mi aspetta una lauta cena e una nottata in tenda in questo piccolo paradiso tra i monti.
Lamayuru e la Valle della Luna
Il mattino presto si parte e si scende al bivio per prendere la direttiva Leh-Kargil verso Lamayuru.
Siamo a circa 130km da Leh quando vediamo il monastero, abbarbicato sulla montagna, in tutto il suo splendore.
Lamayuru ospita circa 150 monaci della setta Buddhista Zhwa-mar-pa dei Cappelli Rossi, ed è famoso per una leggenda che racconta che, al tempo di Sakyamuni, la valle di Lamayuru era un lago in cui vivevano i naga. Il Bodhisattva Madhyantaka ebbe una premonizione secondo la quale il lago si sarebbe prosciugato facendo sì che potesse essere costruito un monastero. Qualche tempo dopo, Mahasiddhacharya Naropa, uno studente Buddhista indiano dell’undicesimo secolo, stava in meditazione da un numero imprecisato di anni in una grotta del Dukhang. Si dice che fu lui a causare la frana della montagna, che sovrastava il lago, che lo fece così prosciugare. Fu così che lo studente, una volta che il lago si prosciugò, vi trovò un leone che giaceva morto e qui decise di costruire il primo tempio, noto come Singhe Ghang, del complesso monastico di Lamayuru.
Un’altra storia narra invece che il monastero sia stato fatto costruire per volontà del re del Ladakh da Rinchen Zangpo il traduttore.
Delle cinque antiche strutture, ora rimane visibile solo il Seng-ge-Sgang a sud e per accedervi bisogna chiedere la chiave al Lama del monastero e scendere giù nei viottoli sotto il tempio principale.
La cappella è piccola ed è dedicata a Vairocana e ha una piccola saletta a destra, in cui ci sono delle statue di argilla delle divinità tutelari che incutono terrore alla vista e sulle pareti rosse sono affrescati degli scheletri bianchi che non ho visto in nessun altro tempio e che si dice siano i guardiani dei cimiteri. Sono davvero particolari.
Qui vicino vado a trovare una nonnina che mi ha salutato dalla finestra della sua logora casa. I suoi occhi sembrano raccontare storie antiche. E’ davvero dolcissima.

Ripercorrendo a ritroso la strada in salita, faccio la khora del monastero seguendo due piccoli monacini, indugio con tre pellegrini che mi sorridono curiosi e poi scendo giù al villaggio. E’ davvero povero, le case sono logore e nella via principale c’è il rivolo di scolo della fogna e della spazzatura, in cui passa il lungo tubicino dell’acqua che è invece utilizzata per uso domestico.
Bevo un tea in una locanda da cui ho una vista bellissima del complesso monastico appollaiato sopra la montagna.
La jeep si inerpica sulla strada tra le montagne verso l’anfiteatro naturale della Valle della Luna.
Rifletto sul fatto che ogni paese ne deve avere una, l’anno scorso infatti ne ho vista una in Chile, e devo dire che anche questa Ladakha è davvero uno spettacolo. Le rocce color giallo oro sembrano brillare e incoronano di luce coi loro bastioni il precipizio sottostante. Una famigliola di asinelli bruca i rari fili d’erba e a bordo strada cespugli di rose selvatiche chiudono questa cornice naturale di estrema bellezza.
Più avanti la strada scende in un turbinio di tornanti che serpeggiano giù nel vuoto in una vista mozzafiato. Mi fermo in un posto di ristoro per camionisti.
E’ fantastico vedere come all’esterno abbiano allestito dei gazebo con sotto delle reti dove gli autisti si rilassano e riposano all’ombra dopo aver mangiato. Il menù fisso offre riso a volontà e gustosissimo dhal per pochi spiccioli. Sulle pareti del locale ci sono improbabili poster di attrici di Bollywood in pose maliziose e alcune scritte sui muri, una che ricorda un po’ le malinconiche frasi che scrivevo sulla Smemoranda quando avevo tredici anni “un cuore infranto fa più male delle ossa rotte” e un’altra che invece mi riporta subito in India, sulle montagne che hanno dato ricovero al Tibet esiliato: “ieri è la storia, domani è un mistero, oggi è un regalo”.
La Valle di Dha e gli Aryani
Si svolta verso i territori che si avvicinano alla Linea di Controllo, quelle zone in cui i confini tracciati sulla carta sono alla fine ancora contesi in quel annoso conflitto tra India e Pakistan.
La Valle di Dha è un luogo sperduto, su una direttiva per Kargil che è ormai aperta solo ai convogli militari che vanno a rifornire gli ultimi avamposti sul confine vero e proprio.
Dopo il villaggio di Dha, dove si trova il mio campo tendato, si può proseguire solo a piedi e solo se muniti di un permesso speciale.
Il sentierino si inoltra sotto alberi carichi di albicocche e conduce fino alle case della piccola comunità che vive qui.
Gli Aryani provengono dalle steppe dell’Asia Centrale e sono giunti fin qui percorrendo una delle antiche Vie della Seta. Hanno la carnagione chiara, i capelli castani e gli occhi verdi e dai loro lineamenti si intuisce benissimo la loro origine turcomanna. Questa tribù è una delle più antiche dell’Asia, una delle poche rimaste intatte, e per me incontrare queste genti è una grande emozione perché li sento essere miei avi: anche noi europei discendiamo da loro.
Le donne indossano pesanti cappotti di lana incrociati sul davanti e sfoggiano acconciature molto particolari pettinando i capelli in piccole treccine raccolte sul capo in una sorta di chignon adornato di monili d’argento e vistosi fiori di campo. Al collo portano pesanti e importanti collane di pietre dure.
La società Aryana è matriarcale, e in queste antiche tribù è costume sociale la pratica della poliandria.
Mi ha stupito molto vedere un gruppo di uomini inginocchiati sui talloni in piazzetta che chiacchierava con altri che stavano inchinati al fosso a fare il bucato.
Gli Aryani hanno conservato le loro tradizioni pressoché intatte grazie anche all’isolamento in cui vivono da secoli abitando in questa zona remota.
La capo villaggio, una signora dall’età indefinita, dopo averci osservati a distanza e aver visto che ci muovevamo con discrezione nel suo territorio guidati da tutti i bambini del villaggio, ci ha invitati a sedere con lei davanti all’uscio della sua umile casa a prendere un “po cha” insieme agli uomini di famiglia e ai bambini. Un tea al latte delicatamente speziato e zuccherato servito in una tazza di ceramica cinese con un cucchiaino improvvisato: un fuscello verde dell’albicocco di casa.
Dei sorrisi splendidi, un’accoglienza calda, vera. Sono sempre più convinta che quando meno si ha più si condivide. Non sarei più andata via.
Il campo tendato del villaggio, l’Aryan Valley Camp, è molto modesto.
Sta in un campo paludoso sotto il costone di roccia delle montagne della valle che si ergono sopra il fiume Dha. E’ circondato da alberi di albicocche. L’area ristoro è stata ricavata sotto un tendone che da lontano sembra un grande gazebo ma non è altro che un vecchio paracadute dell’esercito indiano, tra l’altro coi dei bei buchi. Sotto il paracadute, una lunga tavolata è stata preparata per servire la cena ai pochi ospiti del campo, non prima di averci offerto un buon tea con dei biscotti, tanto rari in questo villaggetto che ha un unico piccolo bazar che vende tutto il necessario per i pochi abitanti della zona. Dopo il tea, faccio una visita ai bagni che stanno al di là di un viottolo che divide il campo dalla casa dei gestori. Sono dei piccoli bugigattoli di lamiera con dentro il wc, con la carta igienica rosa, scarico funzionante, una doccia da cui esce un filo di acqua bella fredda e un secchio. Fuori ci sono tre piccoli lavandini di latta avvitati precariamente alle pareti di lamiera dei bagni con appesi sopra dei piccolissimi specchietti di plastica. Credo che gli abitanti di Dha pagherebbero oro per avere dei bagni così belli.
Lavata e asciugata, bucato fatto e steso al sole sono pronta per la cena.
Stupidamente non capisco dove sia la cucina da campo. Sotto il paracadute ci sono solo il tavolo con le sedie.
Mentre il sole oramai è calato, dipingendo di rosa il cielo e le prime stelle appaiono come lumini lampeggianti nel blu, i due giovani gestori portano in tavola, arrivando da casa, delle pentole fumanti con riso profumato, sagh (verdura a foglia larga simile agli spinaci) saltata con la cipolla, dhal, verdure miste saltate con sughetto di curry e chilli, patate arrostite con l’aglio, carne in umido e chapati bollente.
Questa è stata la cena più buona di tutto il mio viaggio. Cose semplici, fatte in casa con quello che c’era.
A fine cena il classico tea e una buonissima crema pasticcera alla vaniglia proprio come quella che mi faceva la mia nonna. Non ci potevo credere. Questo posto nonostante la povertà ha offerto tutto questo ben di Dio. La notte, il rumore delle rapide del fiume Dha mi ha accompagnata dolcemente nel sonno e al mattino la rugiada ha ricoperto ogni cosa con goccioline brillanti al sole.
Una buona colazione, chapati, burro, marmellata, chay e una bella sorpresa. I due ragazzi del Camp hanno preparato una scatola di albicocche appena colte dal loro frutteto perché potessi portare con me il ricordo di questo luogo splendido. Io sorpresa e commossa con la scatola in mano piena di queste piccole albicocche non ho saputo dire altro che tuchenà, grazie, prima di salire sulla jeep e allontanarmi da questa valle incantata, la valle degli Aryani, la valle di Dha.
Rizong Gompa, Julichen e il ritorno a Leh
La deviazione che Lobsang prende per Rizong Gompa è da cardiopalmo.
La jeep avanza a fatica sul sentiero mono corsia sterrato, sfiorando il costone di roccia a destra e facendomi scorgere il vuoto sotto di me dal finestrino alla mia sinistra.
Il panorama certo è mozzafiato. Più di un centinaio di metri giù in basso scorre un impetuoso torrente e all’orizzonte i ghiacci perenni dell’Himalaya luccicano al sole.
La strada spesso e volentieri ha dei bei macigni piazzati nel mezzo che sono evidentemente rotolati giù dall’alto della montagna rendendo il percorso ancora più precario di quanto già non sembri ai miei occhi.
Il monastero di ordine Gelugpa è stato fondato nel 1831 da Lama Tsultim Nima e vi risiedono una quarantina di monaci. Da qui si ha una vista spettacolare sulle montagne innevate, inoltre c’è un gran silenzio tagliato dalle folate di aria gelida che sembrano arrivare dai ghiacci al di la della stretta valle.
Mi godo la pace di questo monastero che è stato rifugio e dimora di tanti eremiti in questi secoli.
Dopo aver visitato le due sale principali e reso omaggio a Sakhyamuni, me ne sto seduta sul tetto del Gompa a guardare giù il fiume che scorre per poi alzare lo sguardo che va a perdersi sulle vette dell’Himalaya.
Ripresa la jeep, un po’ più in giù faccio sosta al monastero femminile di Julichen dove vivono 26 monachelle. Il monastero è decisamente umile e spartano e le monache si occupano di svariate attività quali l’estrazione dell’olio dai noccioli di albicocca e la mungitura delle vacche. Solo le più giovani e brillanti studentesse sono destinate allo studio della filosofia Tibetana e all’iniziazione alla meditazione.
La strada di ritorno a Leh, nel suo ultimo tratto mi è ormai famigliare. Mi sembra di far ritorno a casa, quando faccio la curva che da Fort Road scende verso Old Road dove, nel semplice Hotel Horzey, ho la mia stanzetta.
Il tempo di un bucato e una doccia fresca, veloce e a piedi mi incammino verso il Dreamland Restaurant, a mio avviso il migliore della città, dove con meno di 4 dollari mangio in abbondanza e bene.
Vado a dormire presto perché l’indomani mattina mi aspettano 2.000 metri di dislivello per attraversare il passo obbligato per accedere alla Nubra Valley.
il Khardung La e la Nubra Valley
Il cielo all’orizzonte è coperto da nubi plumbee e, mentre la jeep si inerpica sui tornanti, vedo il panorama su Leh che diventa sempre più piccina man mano che salgo verso l’alto.

Attraverso il posto di blocco militare, dove vengono lasciate le generalità di chiunque sia intenzionato a avventurarsi in Nubra, e continuo a salire fino a uno stop sul bordo di un tornante che ha una sorta di guard rail in pietra.
Da qui c’è una vista mozzafiato sulla valle dell’Indo. Leh è oramai invisibile e gli occhi sono attirati dalla catena dell’Himalaya indiano, tutta innevata, al cui centro svetta perfetta la piramide dello Stok Kangri, la grande montagna.
Ora ritrovo l’emozione dell’atterraggio su Leh. Ora sento che sto entrando nel mio mondo fatto di aria sottile.
La jeep avanza verso il ghiaccio e le guglie bianche di neve perenne mi circondano.
Il Khardung La, con i suoi 5.620 metri di altezza, è il passo carrozzabile più alto del mondo ed è l’unico accesso possibile per entrare con le jeep nella valle di Nubra.
Ci sono molte jeep cariche di turisti intontiti che arrivano fino qui in gita da Leh per toccare il cielo con un dito, farsi una foto davanti alle bandiere di preghiera, per poi crollare quasi esanimi sui sedili delle auto che li riporteranno a breve a una quota più “respirabile”.
Effettivamente 2.000 metri di dislivello in salita, fatti in mezza giornata, si sentono. I movimenti sono rallentati e la testa gira leggermente, un po’ come quando bevi un bicchiere di grappa di troppo.
Mi faccio una passeggiata per dare un’occhiata.
Entrambi i versanti sono bellissimi, le cime delle montagne sono così vicine che ti sembra di toccarle dall’alto. C’è un posto militare dove stanno di stanza un gruppo di soldati che stanno seduti al sole, su vecchie sedie di plastica, imbottiti in pesanti piumini e con gli occhi coperti da occhiali da alpinismo.
I loro alloggi sono degli hangar di metallo verdi che non sembrano molto confortevoli. Dura la vita lassù...
Lo sterrato ghiacciato e innevato, che scende verso la Nubra, è impegnativo. La neve, in alcuni punti, rischia di far incagliare le ruote delle jeep e, almeno una volta, Lobsang si è fermato per aiutare a spingere a mano i mezzi bloccati.
Più in giù un altro posto di blocco registra il passaggio verso nord.
La Nubra mi appare già magnificente.
E’ davvero simile alle alte valli del Tibet. Montagne massicce di arenaria color ocra finiscono giù sulle rive verdi del fiume che dall’alto sembra di colore argento. Dall’alto è un gran deserto in quota costellato da oasi. Man mano che ci si avvicina a Disket incontriamo splendide dune di sabbia, prima di inerpicarci nuovamente sugli ultimi tornanti in direzione della grande statua d’oro del Buddha del Futuro, che è stata costruita su un colle di fianco alla montagna, su cui si arrampica il monastero buddhista di questo villaggio.
Disket, Hunder e il Dalai Lama
Disket, a 150 km da Leh, appare brulicante di vita, nonostante sia in una valle sperduta che è in contatto col resto del mondo solo per cinque mesi l’anno.
Uno stendardo con scritto WELCOME accoglie i visitatori che stanno giungendo da ogni dove in occasione della giornata di domani, in cui il Dalai Lama in persona inaugurerà, con una grande puja, la statua del Buddha Maitreya e impartirà i suoi insegnamenti a chiunque vorrà ascoltarli, senza distinzione di razza, religione e provenienza, in una due giorni di messaggi di pace e tolleranza che a me sembreranno abbracciare il mondo intero.
Dopo una breve pennica, mi incammino lungo la khora.
Un antichissimo muro mani si erge, ricoperto di pietre mani intagliate con le preghiere, e si distende per tutta la via che dal centro villaggio porta verso l’incrocio per il monastero.
La vista è davvero bella, perché sopra il muro mani si vede il monastero e sopra il monastero c’è una splendida vetta coperta di neve.
Seguo il sentiero che porta al Buddha del Futuro.

Il colle è stato tutto recintato e i preparativi fervono per la giornata di domani.
Noto che la zona è sorvegliata dall’esercito indiano e immagino che domani questo colle, che ora è deserto, sarà gremito di una moltitudine impressionante di pellegrini.
L’inaugurazione del Buddha del Futuro avverrà alle 7.30 del mattino, poi seguiranno vari discorsi al pubblico presente da parte delle autorità e infine ci sarà il discorso del Dalai Lama.
La mattina sveglia all’alba. Mi confondo tra i pellegrini mentre risalgo pian piano la collina.
Ci sono nonnine meravigliose con lunghe trecce grigie annodate, che si posano sui mantelli di broccato di seta che hanno sulle spalle. Alcune portano il tibi o kantop, il copricapo tradizionale ladakho, un cilindro di broccato di seta imbottito, la cui tesa si apre sul davanti con due punte all’insù. Hanno collane di coralli e turchesi, monili in osso di yak e quasi tutte hanno in mano il rosario tibetano o la ruota di preghiera. Alcune di loro portano le classiche scarpe di feltro con la punta all’insù, ricamate sui lati con colorate geometrie. Altre indossano il grembiule tibetano a righine colorate sopra i loro abiti tradizionali. Ci sono monacini che corrono su sentieri improvvisati superando tutti in velocità, altri monaci che scendono giù dalle scarpate ai lati del monastero, mentre i raggi del sole illuminano tutto filtrando tra le vette e facendo scintillare i chorten lungo il percorso. E’ uno spettacolo che non potevo immaginare fosse così bello.
Quando arrivo su c’è già un sacco di gente.
Ci sono stand per la raccolta delle offerte con una fila di persone pronte a donare come possono, quanto possono, anche se hanno poco. Per la tua donazione ti viene data una benedizione simboleggiata da una cordicella rossa con un nodo al centro, che di solito viene arrotolata e legata intorno ai polsi.
C’è una sorta di centro d’accoglienza, sotto l’immancabile paracadute bianco usato come tendone, dove un pentolone grandissimo sta ribollendo sopra un fuoco.
Mi incammino verso l’ingresso della grande area, che è stata allestita per accogliere i pellegrini accorsi per ascoltare il loro leader spirituale.
C’è una bella fila e bisogna passare un controllo di sicurezza.
Ovviamente tutti hanno paura per l’incolumità di un personaggio come lui, che rappresenta un popolo perseguitato e ne diffonde la storia, le vicende, la cultura e ne dichiara lo stato di oppressione a cui è sottoposto agli occhi del mondo intero.
L’area di fronte al piccolo palco, dove si terranno i discorsi, è ben sistemata, in modo tale che ogni pellegrino abbia un posto dove sedersi a terra, sui tappeti a corsia.
Il tutto si trova proprio al di sotto del colle dove sorge la statua del Buddha. Da qui provengono i suoni delle trombe e dei corni della puja dove il Dalai Lama sta inaugurando la statua.
Dopo l’inaugurazione, davanti al palco sulla destra, iniziano a radunarsi ordinatamente tutti i monaci creando un manto rosso, bellissimo da vedere.
Intanto le ore passano, i dignitari ladakhi e kashmiri hanno iniziato i loro discorsi ufficiali e la folla aumenta e si perde a vista d’occhio.
Ci sono donne ladakhe che indossano il costume tradizionale con il perak, il copri capo fatto di feltro ricoperto di pietre di turchese che finisce a coda sui loro lunghi capelli intrecciati. Molti portano offerte floreali e khate, le sciarpe bianche di benvenuto, per il Dalai Lama.
Verso l’ora di pranzo alcuni fedeli portano dei grossi pentoloni pieni di riso giallo, con le verdure e frutta secca da offrire ai pellegrini. Ce n’è per tutti e a ognuno di noi ne viene dato un piatto colmo.
I monaci passano successivamente con i bicchieri di latta e poi offrono il tea a tutti. Come se non bastasse, un gruppo di ragazze ladakhe si disperde tra la folla con dei grossi vassoi o piatti di plastica pieni di biscottini. Non sia mai bere il tea senza i biscotti. Vengono inoltre distribuiti varie volte dei succhi di frutta al mango. E’ stato molto bizzarro vedere i monacini di quattro o cinque anni e i loro precettori adulti, seduti a succhiare tutti insieme il succo di mango con le cannucce mentre erano intenti a guardare il palco e ad ascoltare il governatore del Kashmir fare il suo discorso alla popolazione. C’è un gran senso di comunione in tutto questo, un grande esempio di amore, mi verrebbe di dire anche di tolleranza, ma qui siamo oltre la tolleranza e la convivenza pacifica, questo è vero e proprio senso di uguaglianza, rispetto, integrazione e amore universale per tutti gli esseri umani, di qualsiasi natura essi siano, di qualsiasi provenienza, etnia, religione o credo. Tutti uguali, con gli stessi diritti e doveri. Mi sento parte integrante di questa comunità di gente che proviene da ogni dove, che mi sorride, mi accoglie nel vero senso della parola.
Quando Tenzing Gyatso, il XIV Dalai Lama arriva, dall’alto del colle, non è diverso dagli altri monaci. Ha la stessa tonaca rossa rubino, con la stessa casacchetta giallo ocra sotto, un paio di scarpe anonime, non un gioiello, non un accessorio che lo renda diverso dalle altre migliaia di monaci che stanno seduti davanti a me a bere pacifici il loro succhino al mango. Ha un sorriso e una buona parola per tutti, saluta tutti coloro che gli si presentano davanti, e tutte queste persone non sono folli fans scalmanati, sono mesti e tranquilli pellegrini che, con le mani giunte sulla testa e in seguito con una kata tra le mani protese al cielo, lo salutano con una semplicità, una grazia e una pace ammirevole e spesso coi lucciconi agli occhi.
Lui parla per almeno due ore di pace, rispetto, uguaglianza, aiuti ai bisognosi, lo fa con grande umiltà e tutti lo stanno ad ascoltare con attenzione. Alla fine saluta tutti con le mani giunte, sorridente, come sempre fin dal primo istante in cui si è presentato davanti alla folla. A questo punto iniziano una serie di danze tradizionali in omaggio a lui dedicate e interpretate dai vari gruppi etnici presenti.
Tutti questi colori e sorrisi hanno sullo sfondo le cime bianche di neve che sembrano guardare dall’alto con benevolenza anche loro.
Non riesco a descrivere l’emozione che ho provato ad essere parte di tutto questo che, nella sua semplicità ed essenzialità, mi ha lasciato un segno e un insegnamento indelebile nella memoria e nell’anima.
La festa continua, io mi lascio la folla alle spalle e mi incammino giù dalla montagna verso il villaggio.
Anche qui è brulicante di gente, ci sono mercatini ovunque. Resto incantata e mi si stringe il cuore mentre mi fermo a guardare una bimba funambola, che sta in equilibrio camminando su questa lunga corda, con un vaso sulla testa, mentre di sotto un padre padrone le da il ritmo a suon di tamburo...
E’ bello qui fermarsi coi tibetani cercando di capirsi a gesti e godere dei loro immensi sorrisi.
Ricordo i volti tristi in Tibet. Ricordo che lì ho visto più volti tristi che felici.
Nel pomeriggio riprendo la jeep per inoltrarmi nel deserto in quota, verso Hunder.
Lo scenario sul far del tramonto è spettacolare. Dune di sabbia mosse dal vento, in mezzo ai bastioni di roccia dell’Himalaya, che hanno le punte coperte di neve e all’orizzonte, cavalieri su cammelli battriani si avvicinano come tante piccole macchioline nere. Sulla destra di questo quadro naturale si intravede tra le rocce la grande Statua d’oro di Maitreya, il Buddha del Futuro.
Io mi incammino sulla sabbia entrando nel quadro, poi mi siedo su una duna a godermi la vista in silenzio.
Quando torno, Lobsang sta lavando la jeep con altri autisti sulle rive del torrente. Ci sono alcuni laghetti in cui si specchiano le vette e in cui alcuni temerari stanno coi piedi ammollo.
La sera a Disket sono stanca, ho poco appetito e mi metto presto a dormire sul lettone durissimo.
La mattina mi reco al centro del villaggio, dove il Dalai Lama terrà i suoi insegnamenti. C’è una tenda verde sul cui lato maggiore in vista è stata posta una gigantografia del Panchen Lama con sopra scritto “RELEASE”.
All’interno c’è una raccolta di foto e poster che raccontano la storia di quella che è la figura religiosa più importante del Buddhismo Tibetano, ora incarnata dal giovane Gendhun Chökyi Nyma, incarcerato dai cinesi da quando era bambino e di cui da anni non si sa più nulla.
I monaci mi regalano adesivi, poster, ciclostili, è evidente che vogliono creare attenzione, sensibilizzare gli stranieri su questo argomento, su questa disgrazia che tocca tanto il loro cuore come popolo, nazione e come semplici uomini.
Prima di lasciare Disket faccio un salto al monastero che è il più vecchio e il più grande della Nubra Valley.
Il Gompa e le sale non sono visitabili all’interno, perché tutti i monaci sono giù al villaggio dal Dalai Lama. Anche loro, quando lasciano casa, chiudono tutto, ovviamente.
Questo monastero Gelugpa è comunque suggestivo anche se ora è praticamente deserto.
Una piccola cittadella del XIV secolo, fatta costruire da Changzem Tserab, discepolo di Tsong Khapa, che svetta accanto al canalone formato dal fiume Shayok. Si sente solo lo scrosciare delle acque nel silenzio. Anche questo monastero ha la sua leggenda. Si dice che qui abbia vissuto un Demone, un nemico giurato del Buddhismo e che sia stato annientato vicino al monastero. Dopo la sua morte si dice che il suo corpo sia riapparso in svariate occasioni. Anche ora si racconta che la mano e la testa raggrinzite del Demone giacciano conservate all’interno di un tempio del monastero che è pieno di Dei e Divinità feroci.
Ho imparato che qui ogni luogo ha una leggenda. Questo è simbolo di quanto le tradizioni popolari siano ancora radicatissime e presenti in tutto il Ladakh, cosa che lo rende ancora più magico e unico.
Panamik e Sumur
Riprendo la strada a ritroso fino a Khalsar, dove la strada del Khardung La si biforca in due e prendo la direzione verso Panamik e Sumur.

A Panamik dovrebbero esserci delle terme, ma in realtà trovo un sito work in progress, dove l’unica vera attrattiva sono i piccoli figli degli operai che vi lavorano.
Piccoli, stropicciati, coi capelli impastati in piedi, sono semplicemente bellissimi. Occhi neri profondi come il cielo di notte. E che sguardi.
C’è odore di zolfo un po’ ovunque, ma nulla di più.
La strada procede verso Sumur, avamposto nella valle del fiume Nubra.
Non c’è nulla e quando giungo al villaggio appare totalmente deserto.

Il campo tendato e appena fuori dal villaggio di Sumur, a destra del suo lunghissimo e splendido Muro Mani, mi riserva una bella sorpresa. E’ vuoto, non ci sono altri clienti, quindi mi viene offerto di dormire nelle casette in pietra invece che in tenda. Sono graziosissime camere spaziose, con dei bei bagni in pietra. Lo standard è quasi occidentale. Sembra di stare in un bel rifugio di montagna.
Da qui mi incammino verso il villaggio, su per le viuzze sterrate, attraverso i campi di orzo.
All’orizzonte svetta il Karakorum, la sua ultima appendice. Al di là delle prime vette c’è il Baltistan, il mio sogno, al di là c’è il Chogorì, la Grande Montagna, il K2, la seconda montagna più alta della terra. Perdendomi con lo sguardo oltre, arrivo alla via principale proprio mentre stanno rientrando tre grossi autobus letteralmente ricoperti di monaci. Tutti stanno rientrando da Disket, sono felici, sorridono.
La strada in un attimo si riempie di vita e il villaggio sembra rinascere.
Mi incammino, seguendo la khora, alla volta del monastero, dove starò per qualche ora a visitarne i Gompa e le residenze del Dalai Lama.
Qui dono una khata, sperando porti del bene a chi ne ha bisogno.
Sulla strada del rientro, un Lama mi apre un piccolo e preziosissimo Gompa, accanto alla sua umile residenza. E’ meraviglioso e contiene un’enorme ruota di preghiera che deve avere molti secoli.
Quando ritorno giù, al campo stanno preparando la cena e intanto sui tavoli, sotto gli alberi di albicocche, trovo dei termos con il tea bollente e vassoi pieni di biscottini. C’è una tranquillità unica qui, è bellissimo.
La cena è servita a buffet nel ristorante del campo, una graziosa struttura in muratura al cui interno danno luce calde tonalità arancio. La sera, calato il sole, resto un po’ a chiacchierare e osservare le stelle spuntare da dietro il Karakorum, poi un gruppo di ragazzi indiani accende un gran falò e si sta tutti insieme a divertirsi un po’.
Ritorno a Leh
Riprendo la strada verso Khalsar e la jeep, dopo il controllo della Innner Line, si inerpica nuovamente verso i ghiacci perenni del Khardung La.
Ripassare da qui è davvero emozionante. L’aria rarefatta si sente filtrare nei polmoni fredda e povera di ossigeno. Poi si riscende pian piano verso Leh.
La sera passo da un antiquario dove ho trovato le famose copertine di legno dei libri tibetani che cercavo da almeno cinque anni. Mi faccio una bella chiacchierata con il padrone del negozio.
Quando torno all’hostal decido di farmi una bella dormita e il mattino mi alzo con calma alle 9.30. Voglio rilassarmi e entrare un po’ nella città vecchia di Leh, che fin’ora ho visto di corsa, e godermela pian piano.
Il Leh Palace, che somiglia al Potala di Lhasa in Tibet, domina il panorama della città di Leh dall’alto del colle Namgyal, su cui è stato costruito attorno al XVII secolo per diventare la residenza del re Sengge Namgyal.
E’ stato la residenza della famiglia reale del Ladakh fino al 1830, quando loro si trasferirono a Stock in esilio, dopo che l’esercito Dogra prese il controllo della regione.
Ci si arriva con una passeggiata a piedi partendo dal quartiere tibetano della città vecchia, seguendo una viuzza che, dalla Jama Mashid, porta a una scalinata che arriva fino all’ingresso delle mura.
Se siete appena arrivati a Leh, camminate pian piano perché, se non siete abituati, vi verrà il fiatone.
Il palazzo ha nove piani, che oramai sono abbandonati, ed è un pregevole esempio di architettura medioevale tibetana, con le sue colossali mura inclinate e i massicci balconi di legno.
I piani alti erano le residenze vere e proprie della famiglia reale.
Il Palazzo è stato gravemente danneggiato dalle cannonate Kashmire.
Adesso il Leh Palace è la sede della Indian Government's Archaeological Conservation Organization che tra l’altro si sta occupando del suo restauro.
Al suo interno vi è un museo con pregevoli pezzi di gioielleria, ornamenti, paramenti sacri, abiti cerimoniali, strumenti musicali e Tangka che hanno più di quattro secoli e sono perfettamente conservati.
Sul Palazzo svetta la Torre della Vittoria che è stata costruita per commemorare la vittoria dell’esercito Ladakho contro l’esercito Balthi del Kashmir, che tentò di invadere senza successo il Ladakh all’inizio del XVI secolo, cosa che mi ha fatto riflettere su quanto sia ormai radicato da secoli l’eterno conflitto del Kashmir.
Dalla sua terrazza in cima si gode di una vista panoramica su tutta la città di Leh e sulla catena himalayana da cui svetta la piramide innevata dello Stok Kangri.
Nella corte interna al Palazzo invece, ogni pomeriggio si tengono delle danze rituali in costume tradizionale che cercano, in qualche modo, di tenere vive le tradizioni e i fasti dell’antico regno del Ladakh.
A pranzo mi trovo con alcuni degli amici al Terrace View per un piatto di momo e noodles in compagnia. Poi ci incamminiamo per andare a trovare Nazir in Old Road, dove ha un bel negozio con splendidi tessuti in lana. Ci intratteniamo qui, seduti sui tappeti kashmiri, a bere tea e a chiacchierare mentre ogni tanto gli avventori entrano e escono con le borsette cariche di acquisti.
Leh mi piace tantissimo, c’è un clima bellissimo e la gente è davvero splendida.
Ogni tanto io e Patrizia incrociamo i nostri sguardi, le nostre anime parlano la stessa lingua, non occorre dirsi nulla. Siamo a casa qui sull’Himalaya.
La sera ci aspetta una cena a casa di Amin, affascinante uomo d’affari Kashmiro che Patrizia conobbe a Kathmandu molti anni fa. Ora lui si è trasferito qui in Ladakh, dove ha un negozio di pashmine e tappeti.
Con lui in questi giorni abbiamo parlato parecchio del Kashmir. Lui ci ha sconsigliato vivamente di andare nella sua terra perché ora la situazione è troppo instabile e incerta. A Srinagar ha un hotel sulle house boat nel lago Dal e si è ripromesso di invitarci da lui non appena la situazione in Kashmir si sarà stabilizzata.
La sua casa di Leh si trova nel quartiere vecchio, proprio dietro la Jama Mashid, la moschea del venerdì.
Ci arriviamo a piedi munite di pila frontale, perché da queste parti non esiste una buona illuminazione notturna.
Lui ci accoglie in una sala rossa ricoperta da bei tappeti. Ci sono due grandi credenze, piene di antiche stoviglie, che sopra hanno vecchi vasi di rame per l’acqua. Ci mettiamo a sedere sui tappeti e ci viene offerto un masala tea. Le pietanze vengono disposte al centro e pian piano Amin ci fa gustare la cena preparata tutta con le sue mani. Una meraviglia. C’è un riso kashmiro preparato con la frutta secca che è profumatissimo, rape con lo zenzero e yogurt, un umido di pollo con le cipolle e il pomodoro che è una delizia, per non parlare poi dell’agnello che è così tenero e saporito delicatamente che si scioglie in bocca. Questa cena è il paradiso del gusto. Lui ha cucinato tutto il pomeriggio per noi e io ne sono onorata.
Resto davvero stupita e colpita dalle doti culinarie di Amin tanto che, sia io sia Patrizia, gli chiediamo se forse non sarebbe il caso che lui andasse a fare lo chef. Lui sorride, parla molto lentamente, scandendo bene le parole e guardandoti fisso negli occhi con i suoi grandi occhi color ambra. Che ospitalità e che bello essere parte della vita locale così, con semplicità.
Intorno alle 22.00 togliamo il disturbo, anche perché lui deve andare in moschea per l’ultima preghiera prima della notte.
Tiksey
La jeep si dirige verso Tiksey arrivando direttamente al villaggio che sorge sotto il monastero.
Il monastero di Tiksey, a circa 18 km da Leh, appartiene all’ordine Gelugpa, ospita una sessantina di Lama ed è stato fondato da Sherab Sangpo presso Stakmo. Venne ricostruito, da suo nipote Spon Paldan Sherab intorno al 1430, in cima a una collina a nord dell’Indo a circa 3.600 metri di altitudine ed è famoso per il Tempio di Maitreya, al cui interno vi è una statua del Buddha del Futuro alta 15 metri che occupa praticamente due piani del Tempio.
La leggenda narra che nel XV secolo Tsong Khapa mandò sei dei suoi discepoli attraverso le terre del Tibet a diffondere la nuova dottrina Buddhista. A uno di essi, Sherab Sangpo, diede una piccola statua di Amitaba, il Buddha della longevità, che conteneva delle reliquie, tra cui una goccia del sangue di Tsong Khapa, da dare al Re del Ladakh con un messaggio di richiesta di aiuto nella diffusione della dottrina Buddhista. Il Re decise che lo avrebbe aiutato e nel 1433 Sangpo fondò la piccola città monastica di Lhakhang Serpo (tempio giallo) nel villaggio di Stakmo a nord del fiume Indo. Successivamente il nipote Paldem decise di costruire il monastero di Tiksey sul colle attuale. Si racconta che Sangpo e Paldem stavano preparando il rito della torma, quando due corvi gli rubarono il piatto cerimoniale delle offerte e lo posero su un colle vicino. Questo per loro fu un segno divino che gli indicava dove avrebbero edificato il monastero.
Il monastero, visto dal villaggio e dalla strada principale, assomiglia molto al Potala di Lhasa, tanto che alcuni lo chiamano Mini Potala.
Oltre all’ingresso principale, attraverso il grosso portale tibetano nei pressi del parcheggio autorizzato, c’è la possibilità di accedere anche dal vecchio villaggio alla base. Io sono salita da qui, passo dopo passo, sugli scalini che si intrecciano e si incontrano su questa collina, fino ad arrivare su, seguendo il suono dei corni, delle trombe e dei mantra salmodiati dai monaci nel Gompa, durante la Puja.
Prendendo questa via, si ha la possibilità di vedere una bellezza che altrimenti passerebbe inosservata. Un muro decorato in altorilievi con figure mitologiche Buddiste colorate, tra cui spicca uno splendido Garuda e anche un Pavone. E’ bellissimo.
L’edificio più grande ha più o meno dodici piani ed è dipinto di rosso, giallo ocra e bianco.
Visito il Gompa principale. Prima di entrare, a sinistra faccio una foto a uno splendido calendario affrescato con un Bhavachakra, ruota della vita su sfondo blu. Questo mandala ha bellissime immagini di un serpente, un uccello e un maiale che simboleggiano la cupidigia, il desiderio e l’ignoranza. Lo scopo di questo mandala è ricordare che queste attitudini terrene vanno abbandonate per ottenere l’illuminazione durante la vita e prevenire così il ciclo continuo di morte e rinascita.
La sala della preghiera ha una pregevole biblioteca con innumerevoli manoscritti miniati, tra questi i 224 volumi del Tangyur, il commentario degli insegnamenti Buddhisti, rigorosamente conservati in drappi di seta dentro alle loro copertine lignee. Ci sono inoltre un bel Avalokiteswara, un Padmasambhava e numerosi affreschi coloratissimi di varie divinità.
Tiksey è forse il monastero che più mi ricorda il Tibet, ed è sicuramente quello che mi è piaciuto di più.
Il tempio più noto è quello che ospita la grande statua del Buddha del Futuro Maitreya, che è stata costruita di recente sotto la supervisione di Nawang Tsering del Central Institute of Buddhist Studies di Leh, per commemorare una visita del Dalai Lama nel 1970. Il Buddha domina l’intero tempio e la sua testa enorme spunta dal pavimento, protetta da un ballatoio di legno decorato da cui sotto si vede il corpo della statua, con le gambe incrociate in posizione del “Loto”. La statua è tutta d’oro ed è davvero bella. I suoi occhi sembrano guardare le montagne che appaiono dall’enorme finestra davanti.
Passo al bel tempio dedicato a Tara, che contiene le sue personificazioni protette dietro un vetro.
Il Tempio di Lamokhang è chiuso e comunque non potrei visitarlo perché l’ingresso è proibito alle donne.
Scendo giù al chiostro del tempio principale, per ammirare gli affreschi che lo decorano.
Fuori dal complesso templare mi accorgo che a Tiksey sono organizzatissimi, si può pernottare, c’è un ristorante tibetano, un negozio con molti libri e oggetti di artigianato. Sotto all’edificio del ristorante e dell’ostello c’è un bel museo di storia e arte tibetana che va visitato, perché conserva antichi paramenti, stoviglie, libri sacri e abiti cerimoniali che sono testimonianza delle antiche tradizioni del popolo tibetano.
Da qui esco verso il parcheggio e lascio Tiksey con la jeep diretta verso il Rusphu, la valle dei grandi laghi.
la Rusphu Valley, lo Tso Moriri e lo Tso Kar
Dopo Mahe, lasciato l’Indo, la strada serpeggia verso l’alto e i paesaggi si fanno da subito grandiosi. Avvicinandosi al Kyagar La spuntano tre vette coniche totalmente bianche e dopo il passo oltre i 4.800 metri, si esce dallo sterrato per una parte su pista che è appena accennata, fino ad arrivare sulla riva dello spettacolare Tso Kyagar, completamente turchese e incontaminato. Questo lago quasi non è segnato sulle mappe, ma è di una bellezza unica. La sosta è d’obbligo.
L’aria di montagna è secca e freschissima e il sole è alto nel cielo. Che spettacolo questa terra dagli alti valichi. Mi sento abbracciata dalle sue montagne, mentre il tepore del sole mi riscalda.
Risalgo in jeep e, percorrendo la pista che a tratti pare sabbiosa, ci addentriamo nel Rusphu.
I colori sono vivissimi. Ocra, marrone acceso e bianco purissimo dei ghiacci perenni si stagliano nel blu del cielo. Ogni tanto incontro dei cavalli che pascolano indisturbati. Poi dietro a una curva, mi si apre lo spettacolo. Inizio a intravedere i picchi frastagliati che si ergono sopra le acque azzurre dello Tso Moriri.
Al di la c’è il Tibet. Il Tibet occupato, il Tibet con tutta la sua magnificenza.
La jeep si avvicina al lago velocemente facendo lo slalom tra le buche e i sassi. Si ferma sul ciglio della pista e io corro giù sulla riva del lago.
A pomeriggio inoltrato fa freddino, ma non c’è vento e la lieve brezza che si sente va pian piano a scemare. Il terreno è ricoperto di sassolini e di bastoncini che sembrano alghe e che scricchiolano sotto i miei scarponi. Mi siedo su un grosso sasso a neanche mezzo metro di distanza dall’acqua.
Guardando da est a ovest vedo la pista da cui sono arrivata in mezzo alla valle, i tre coni innevati e la corona di picchi che si chiude attorno al lago. Il silenzio è totale. Pian piano anche la brezza non si sente più, le acque diventano piatte e si trasformano in uno specchio che riflette perfettamente le montagne e il cielo, a tal punto che non si capisce più dove stia l’acqua, dove stia la terra e dove stia il cielo.
Terra, acqua e aria fusi insieme in un quadro spettacolare. Non ho mai visto una cosa simile.
Quando risalgo sulla jeep sono esaltata, emozionata, carica.
Passo il posto di controllo dove vengono registrati i dati di chi lo oltrepassa. La strada conduce al confine tibetano, quindi l’allerta è alta.

Quando arrivo a Korzok mi rendo conto di quanto dev’essere duro vivere quassù.
Le case del minuscolo villaggio abbarbicato sulla montagna sono molto povere, prive di qualsiasi comfort, con gli scoli delle fogne a cielo aperto. Inoltre, tenendo conto che questi sono i mesi più caldi dell’anno, non oso immaginare come sarà l’inverno, dato che la temperatura nel pomeriggio adesso è di 8 gradi.
Lo Yak Camp, il mio campo tendato, si trova a fine villaggio proprio di fianco a un bel torrente dove un giovane sta sciacquando le stoviglie. La vista, oltre le tende, termina nel lago e si innalza poi sulle montagne. Le tende sono sufficientemente accoglienti, hanno tutte la luce, due bei letti in legno coi materassi e delle pesanti trapunte. I bagni sono simpatici. Sono delle tende in plastica con il wc vero e proprio con doccino e secchio. L’acqua è bella fredda, ma considerando che non siamo sotto zero è passabile per darsi una buona lavata dove serve. Anche le docce sono dignitose. La tenda ristorante è grandissima e all’interno ci offrono un tea coi biscotti per darci il benvenuto. Qualcosa di caldo ci vuole sempre prima di una passeggiata.
Mi inerpico nel sentiero che attraversa il villaggio e arriva al muro mani e ai piccoli chorten sulla montagna. Cammino molto lentamente perché ho un forte mal di gola e non voglio sudare. A circa 4.600 metri non siamo altissimi ma neanche bassi. Arrivo al passo in cima alla montagna e, quando mi volto e mi siedo sulle pietre sotto le bandiere di preghiera, lo spettacolo che mi si apre davanti agli occhi mi fa davvero emozionare. Giù il lago è oro, brilla e scintilla alla luce del tramonto. Le montagne si specchiano dentro di lui con dei riflessi arancio e sembrano continuare sull’acqua diventando un tutt’uno con essa. I chorten appaiono neri in controluce e si stagliano su questa vista creando un contrasto strepitoso.
Resto per molto tempo ad ammirare lo spettacolo della natura del giorno che muore e della notte che nasce in cima all’Himalaya Indiano.
Questo è stato il tramonto più bello di tutto il viaggio. Indimenticabile!
Scendo tranquilla a valle verso il campo tendato. A cena sto con il piumino e il mio inseparabile berrettino Inca di calda lana di alpaca che comprai nel ’98 da un vecchino nel mercato del pueblito di Chivay in Perù. La notte mi addormento ascoltando lo scorrere dell’acqua nel torrente e pensando che il ricordo della giornata vissuta mi emozionerà sempre.
Al mattino il cielo è azzurrissimo e l’aria fredda sulla faccia mi da subito energia.
Vado a far colazione nel tendone dove mi aspettano delle omelette, il pane e marmellata e un buon tea rovente.
Lascio Korzok dietro di me, guardando le acque dello Tso Moriri scintillare d’argento al sole.
Al posto di controllo, altro stop e poi si prende la via per lo Tso Kar.
Passiamo accanto alle fonti termali saline e l’acqua frizza uscendo dalla sorgente creando poi, dove ristagna, dei disegni coloratissimi rossi e marroni. In lontananza, un piccolo gayser sputa vapore in un campo verdissimo.
Proseguendo incontriamo una famigliola di marmotte i cui cuccioli giocano alla lotta non curandosi degli spettatori incuriositi che li guardano.
Lo Tos Kar è un lago stranissimo. Dalla pista si vede in lontananza oltre un manto erboso che si alterna a vaste depressioni del terreno e ha l’aspetto di una laguna salina. I colori sono molto belli, si va dal verde sgargiante al tenue, dall’ocra al bianco. Faccio una sosta in un villaggio che finisce su quelle che dovevano essere le rive del lago. C’è una distesa infinita di mattoni di fango, che sono disposti con cura ad asciugare al sole. Il panorama è splendido, coi monti spruzzati di neve in lontananza e il sole mi da un tepore meraviglioso. Mi sento così accolta e abbracciata da queste montagne che mi sento a casa.
Qui tra l’altro per la prima volta in vita mia riesco a vedere l’arcobaleno solare.
Per i tibetani è un buon segno e loro credono che sarà di buon auspicio per il futuro.
Giriamo intorno al lago incontrando un esemplare di cavallo selvatico, che corre libero in queste lande sconfinate.
Il campo tendato è una gran sorpresa. Mai avrei pensato di trovare un gioiellino così in mezzo al niente. Candide tende bianche verandate con le sdraio all’ombra, i tavolini e tutto attorno l’Himalaya indiano.
I bagni esterni in lamiera sono davvero uno spettacolo. Il panorama si perde fino allo Tso Kar e nei prati, splendidi cavalli pascolano tranquilli e indisturbati.
All’orizzonte il cielo si fa plumbeo e sembra minacci pioggia. L’effetto luce è fantastico, le cime bianche sotto sembrano ancora più brillanti e i raggi del sole splendono come pennellate di luce sul chorten del campo. Una passeggiata è d’obbligo. Mi incammino verso i prati dietro il campo.
Il terreno è un groviera. Piccole gallerie e buchi coprono la maggior parte dei prati circostanti. Sono la casa dei piccoli topini himalayani, che si possono vedere correre nelle gallerie, se si resta fermi un po’ non pestando il terreno. Sono bellissimi. Mi avvicino ai cavalli e passo tra loro indisturbata.
All’orizzonte sul sentiero stanno arrivando due ciclisti. Sono basita. Che ci fanno due in bicicletta a queste latitudini?
Quando torno al campo incontro i ciclisti al bagno. Sono italiani e sono felicissimi di incontrare dei compatrioti in questo posto sperduto.
Dopo un tramonto splendido con le montagne rosso fuoco, ceniamo tutti insieme nel tendone ristorante e chiacchieriamo parecchio. Ci raccontano che giù è un fango unico. La strada tra il Barcha La e il Rohtang La è un incubo e sta piovendo un sacco. Loro due stanno facendo la Manali-Leh in mountain bike, e fin qui la cosa ci può stare. Il fatto sorprendente è che Andrea, uno dei due, è senza una gamba. Farsi il Khardung La e le strade sterrate infangate in salita di queste montagne è secondo me un gran esempio di forza di volontà e voglia di vivere.
Una volta rientrati in Italia manterremo i contatti e lui mi manderà il link del video della sua impresa: “Oltre le barriere”. Bellissimo!
Sarchu
Al mattino si parte presto e sulla strada incrociamo di nuovo delle marmotte che fanno capolino col musetto fuori dalle tane. Sono bellissime e sorprendentemente grosse.
Il tragitto sterrato è molto lungo e prendiamo la direttiva sali scendi che ci porterà a Sarchu.
La strada ha dei panorami spettacolari.
Facciamo sosta pranzo in un passo e scendiamo poi giù in una valle in quota, che costeggia delle falesie spettacolari che vanno a finire giù al fiume. Qui vediamo pascoli a perdita d’occhio fin sotto le montagne. Dopo aver affrontato il Lachlung La, oltre i 5.000 metri, e il Nakee La, di poco più basso, entriamo in Himachal con un lungo serpeggiare di tornanti sterrati, in cui dobbiamo fermarci per far passare un contingente di camion militari, che stanno risalendo per andare a pattugliare il Kashmir.
Proprio in questa settimana, la strada per Kargil – Srinagar è stata chiusa in quanto, nella città capoluogo del Kashmir, ci sono stati 26 morti e parecchi scontri. L’esercito indiano sta quindi rinforzando il contingente armato per proteggere i confini e le zone a rischio di sommosse.
Svoltando dopo il ponte, al confine tra Ladakh e Himachal, mi si apre davanti una valle verde meravigliosa. La particolarità di questo posto, che è stato scavato dal fiume in migliaia di anni, è che ha un canyon, che è talmente a strapiombo nel mezzo del verde, che lo si scorge solo a pochi passi dal baratro, mentre invece se si guarda la valle in toto, sembra una semplice vastissima distesa verde.
Sarchu è un posto fuori dal mondo, ma comunque un posto di passaggio, dove ci sono un po’ di campi tendati, che ti accolgono prima di affrontare la lunga e difficoltosa strada che dal Barcha La porta al Rohtang La, per finire giù a valle fino a Manali.
Camminando sui prati verdi, per arrivare fino allo strapiombo, mi accorgo che l’erba è coperta di stelle alpine. Una meraviglia. Non ne ho mai viste così tante in vita mia. Che spettacolo.
Il sole cala e pian piano la valle si adombra. All’orizzonte il massiccio sopra il Barcha La è cupo coi suoi ghiacci blu. Sto seduta su un masso per un po’ a godermi il silenzio.
Il campo tendato è grazioso, le tende molto ampie, coi letti di legno e sedie di vimini. C’è anche il bagno, nella “retro tenda”, col pavimento in legno. La cosa buffa è che ogni tanto le pareti sventolano così, mentre si è sul wc, si può guardar fuori...e da fuori però si vede dentro.
Al campo incontro un gruppetto di Indiani che vivono in Inghilterra e sono in vacanza qui. Arrivano da Manali e chiedono aiuto. Una di loro è a letto con un forte mal di testa, giramenti e vomito. Non sa se proseguire.
A dire la verità, tutti loro hanno mal di testa. Ciò mi induce a pensare di aver fatto bene a fare il giro opposto partendo da Leh.
L’acclimatamento è una cosa importante. Arrivando da Manali a Sarchu si dorme subito a 4.300. Un po’ troppo per un fisico non abituato all’altitudine.
Il nostro medico visita la giovane e la tranquillizza, spiegandole bene quali sono i sintomi del mal di montagna.
Ceniamo a lume di candela, perché la corrente elettrica non c’è. Sì è rotto il generatore.
Andiamo a nanna presto perché l’indomani ci aspetta una levataccia. Dobbiamo affrontare il tratto di strada più delicato di tutto il viaggio.
il Barcha La e la frana sul Rhotang La
All’alba il cielo è cupo. Verso il Barcha c’è una coltre di nubi spessissime che rendono il paesaggio spettrale. Procedendo pioviggina. Sembra venga giù acqua gelata.
La visibilità è scarsa e, man mano che si va avanti, la strada è conciata sempre peggio.
Lastroni di ghiaccio si alternano a buche sullo sterrato che è un mare di fango, inoltre ogni tanto qualcosa rotola giù dall’alto.
Il Barcha La, a circa 4.900 metri di altitudine, è meraviglioso anche tra le nubi basse. Ora vedo il blu plumbeo di ieri da vicino. Il lago sul passo è in parte congelato e il ghiaccio delle montagne arriva in alcuni punti fino all’acqua.
Non ci si ferma e si va via il più in fretta possibile, per quanto la strada lo permetta. Devo ammettere di essere un po’ tesa su questo tratto di strada. Il fatto è che il bello deve ancora arrivare.
Finalmente si scende, e la valle inizia a stupirci con il suo paesaggio.
Inaspettatamente mi sento catapultata in Svizzera, mi sembra di essere lì. Anche gli edifici sembrano tipiche malghe alpine. Queste zone sono raggiungibili solo dal mese di aprile al mese di ottobre e restano bloccate durante il lungo inverno, per via dell’inagibilità del Rhotang La dovuta alla neve.
Passiamo Darcha e poi Keylong, che è la località montana Inn dell’India, nonché capoluogo del distretto di Lahaul e Spiti. Le ricche famiglie di Delhi hanno la casa qui a oltre 3.000 metri e vengono in estate per trovare refrigerio dalle proibitive e bollenti temperature della capitale indiana.
Vediamo pochissimi automezzi nel senso opposto di marcia e, se da un lato può essere un buon indice di traffico scarso, dall’altro, sapendo che questa è l’unica direttiva ora aperta verso il Ladakh, è indice che c’è qualcosa che non va.
Ci si ferma in un punto di sosta. Lobsang sorride. Mi faccio un giretto nel villaggio. Ci sono dei camion fermi e gli autisti chiacchierano tra di loro e con la gente del posto.
La sosta si fa lunga ed è proprio come pensavo. C’è qualcosa che non va.
Il precipitare delle condizioni atmosferiche in questi giorni è stato drastico. Vere e proprie piogge torrenziali hanno colpito nella notte anche le valli alte, che sono notoriamente secche. E’ tutto bloccato. Non si sale e non si scende. Questa mattina prestissimo una enorme frana si è abbattuta sul Rhotang La e ora è un gran casino perché non si passa.
A questo punto mi vedo già nel mio sacco a pelo a passare la notte in jeep. Ed è mattina. La cosa che mi stupisce è che non c’è coda, e sono certa che la scelta di partire alle 5 del mattino è stata una gran cosa. Ora arriveranno tutti e sarà un macello.
Si decide quindi di salire in jeep e proseguire fino a dove sarà possibile.
Piove ancora e la jeep sprofonda nelle buche di fango. La cosa inquietante è che la strada ha la larghezza minima da permettere il passaggio a due mezzi che quasi si sfiorano. Da una parte c’è la montagna e dall’altra la scarpata. Ovviamente il guardrail non esiste. E’ uno sterrato dissestato di tutto rispetto.
In prossimità del Rhotang e inizia la coda. Tutto bloccato. Un camion dietro l’altro in colonna tra la nebbia o nuvole che siano, l’atmosfera è così densa che a malapena si vede il fondo dello strapiombo alla mia sinistra. Davanti riesco a vedere tre camion e poi tutto si dissolve nel grigio. Ogni tanto si fa qualche metro.
Quando arrivo sotto un costone di roccia in curva, e guardando giù a sinistra nel baratro scorgo la sagoma di una jeep sfracellata, incrocio le dita. Da sopra può venir giù di tutto.
Finalmente si va avanti qualche metro in più. Comunque giù è ancora tutto bloccato, perché nessun mezzo arriva dall’altro senso di marcia.
Arrivo al passo dopo molte ore e qui siamo definitivamente fermi. C’è una gran confusione. Gente sulla strada che si infila tra i camion per andare a vedere se giù si vede qualcosa. Lobsang torna su dopo un po’ e racconta che, al momento della frana, è passata una colonna di camion dell’esercito, e questo è stato provvidenziale, perché hanno iniziato a scavare e a lavorare subito dopo la frana, per liberare il passaggio. Secondo lui adesso sono a buon punto.
In tanto mi dedico all’osservazione di questo microcosmo indiano. Qui al Rhotang La dovrebbe esserci un bel paesaggio, ma a parte le nubi e l’ammasso informe di fango, non si vede un granché. A un certo punto arriva un gruppo di turisti indiani a cavallo, con indosso delle tute da sci anni ottanta. Terribilmente trash. In mezzo a tutto sto casino, con la strada pericolante, loro che fanno? Un’escursione a cavallo in tuta da sci. Faccio notare che io sto col pile e sciarpetta. Non fa così freddo. Sono matti da legare.
A un certo punto si sente una colonna di clacson. L’esercito ha creato un varco. Peccato che, invece di far scendere e salire i mezzi a turni per senso di marcia, faccia passare contemporaneamente entrambe le colonne così, con grande maestria tipica dell’India, tutti i veicoli si sono perfettamente e irrimediabilmente incastrati e ora suonano un’orchestra di clacson, degna del concerto di capodanno. Nessuno indietreggia anzi, avanzano incastrandosi sempre di più. Sono dei fulmini di guerra.
Io mi metto subito il cuore in pace, oramai il traffico indiano mi è noto. So che prima o poi si sblocca.
In India c’è sempre qualcuno o qualcosa che provvede a salvare la situazione in extremis.
L’esercito sguinzaglia i soldati nel punto dell’incastro e riesce a innescare il passaggio a catena della nostra colonna, bloccando temporaneamente l’altro senso di marcia. Alla fine passiamo giusto in tempo, prima che l’incastro si riformi nuovamente. Non ci posso credere ma ce l’abbiamo fatta.
This is India, Incredible india!
Abbiamo superato il nodo frana. Ora i tornanti mi porteranno finalmente all’asfaltato fino a Manali.
Sedici ore, mi è andata benissimo. Sono davvero sotto le ali protettrici di Ganesh.
Manali
Il paesaggio è splendido, con dei boschi fiabeschi verdissimi. Anche il telefono, che fin’ ora mi era servito solo per la sveglia, ricomincia a dare segni di vita e sul display compaiono le prime tacche del campo.
Alle 20.30 prendo possesso della camera al lodge, che sta in mezzo al bosco, sopra Old Manali.
Dalla finestra vedo le luci della città nuova a valle e tutto intorno ho piante secolari. E’ uno spettacolo!
La doccia ha l’acqua caldissima ed è una goduria. Qui mi rilasserò per qualche giorno in pace.
Manali non è più quella di una volta. Del piccolo villaggio meta degli hippies rimane solo il ricordo.
E’ una città turistica, piena di botteghe che vendono oggettistica per turisti.
Io arrivo giù in città dopo un quarto d’ora circa di passeggiata attraverso il bosco.
All’ombra delle piante la frescura è davvero piacevole e questa passeggiata in discesa è bellissima.
Giù in città invece c’è un caldo...il che mi fa temere cosa troverò in pianura nel Punjab, se già qui a 2.000 metri ci sono più di trenta gradi.
Il mercato vecchio è abbastanza caruccio e interessante. C’è qualche artigiano che cuce i cappelli tradizionali di panno colorati, qualche tibetano che vende libri e bandiere di preghiera. Insomma, qualcosa di autentico è rimasto. In giro c’è un sacco di gente e molti bambini di strada chiedono l’elemosina. Le persone sono molto cordiali e piacevoli.
Faccio un giretto verso il Gompa tibetano. Anche qui c’è gran movimento. Sulla strada pedonale principale stanno invece cuocendo del riso per Krishna in un pentolone enorme. Ovviamente questo riso viene dato a tutti coloro che si presentano lì con un piatto o una ciotola.
Ritorno sulla strada in salita verso Old City, in alto dopo il bosco. Qui è davvero molto grazioso. C’è più tranquillità, c’è il rumore della natura. Mi piazzo in un barettino carinissimo che ha sedie e tavolini di bamboo e tanti cuscini colorati. Sulle pareti alcuni arazzi di Krishna e Shiva danno colore, come se non ce ne fosse già abbastanza. E’ un posticino davvero accogliente e piacevole. Mi bevo un buon tea e mi faccio una lunga chiacchierata. La mia anima irrequieta spunta sempre e scalpita anche quassù.
Ho saputo che qui vicino c’è un guru che fa massaggi ayurvedici e mi sono riproposta di andarlo a cercare. Guardandomi attorno ricordo i racconti di Francy, della sua Manali degli anni sessanta, non riesco a riconoscerla, forse è rimasta solo qui in Old City, ma solo un po’.
Il guru ha una casetta di legno molto spartana, con un giardinetto piccino piccino.
Devo aspettare un po’ per farmi fare il massaggio con le erbe officinali.
Una giovane mi conduce dentro uno stanzino buio, dove il profumo del sandalo si confonde con l’odore della canfora. Lei accende un fornelletto da campeggio, su cui posa un pentolone e poi accende una candela per fare un po’ di chiarore. Non fa molto caldo lì dentro e io mi stendo nuda sul tavolaccio sopra un piccolo asciugamano bianco.
Finalmente l’olio caldo, con un piccolo rivolo, mi viene pian piano versato addosso.
Dopo un ora e mezza di massaggio, mi vengono applicate le cure con dei tamponi di stoffa bollenti, ripieni di erbe officinali, una sensazione stranissima.
Quando esco, sta facendo buio e torno al lodge con la frontale accesa.
Non è stato uno dei massaggi migliori fatti in India, ma mi ci voleva proprio.
Ceno su al lodge al tavolo con i driver e chiacchiero con loro con piacere.
Queste giornate di relax  me le godo appieno.
Prima di andare a dormire saluto i ladakhi, che torneranno in Ladakh a Leh con una tirata unica da Manali. Io proseguirò in pullman, alla volta di Dharamsala.
La valle di Kangra, Kullu, Mandi e l’arrivo a Dharamsala
La strada è stretta a tornanti, ma è ben asfaltata e, a parte la guida indiana costantemente nella corsia di sorpasso al cardiopalma, il viaggio è davvero tranquillo, basta non guardare davanti. Oramai ci ho fatto l’abitudine e so che gli indiani sono dei veri maghi del volante.
Fuori il caldo inizia a sentirsi e io inizio a mal sopportarlo. Penso già con nostalgia alle mie montagne, che mi hanno accolta e abbracciata fino a ieri.
La Valle di Kangra è verdissima, ai bordi della strada ci sono cespugli di cannabis a perdita d’occhio, con delle foglie meravigliose, il cui profumo si sente a distanza.
A Kullu, famosa per i suoi finissimi scialli e preziosi tessuti, mi fermo in una fabbrica tessile dove fanno sciarpe e teli di Cashmere e di lana di Yak. Ci sono anche qui i telai a mano, quelli di legno. Sono stupendi.
Mi fermo poi in un Ashram stranissimo che sta dentro un palazzo costruito sulla collina a lato strada. Bevo un tea con la santona che lo dirige, poi riprendo la strada verso Mandi.
Passato il ponte sul Beas River mi fermo al tempio di Bhimakali ( http://matabhimakali.com/ ), che trovo molto kitsch ma comunque un bello spaccato della cultura induista. Da qui, sempre scendendo, faccio sosta in pieno monsone a Panchvakra a vedere il tempio di Shiva. Mi bevo un tea in una locanda e faccio scorta di biscottini di pastafrolla dal fornaio del paese.
Il viaggio è lunghetto, sulla strada ci sono vaste piantagioni di tea. Finalmente si arriva a Dharamsala.
Mi fa un “certo che” essere qui. La città è disordinata nel tipico stile indiano. Oltre la città c’è un infinito recinto a filo spinato, tutto attorno alla collina, dove in cima sorge la cittadina di McLeod Ganj.
Per arrivarci ci sono numerosi posti di blocco dell’esercito indiano. La posta in gioco è alta, i rischi enormi. Nulla va lasciato al caso nel luogo che ospita uno degli esuli più importanti e carismatici dei nostri tempi.
Il Dalai Lama.
McLeod Ganj e il governo provvisorio del Tibet in esilio
Quando nel ‘59 il Dalai si convinse a lasciare il Tibet, dopo che il suo popolo lo pregò in lacrime di andarsene per la sua sicurezza, attraversò l’Himalaya a cavallo fino a giungere in India dove, con l’appoggio del governo indiano, trovò ricovero e poté istituire il governo provvisorio del Tibet in esilio, proprio qui a McLeod Ganj.
Quando sono arrivata qui, tutta la sua storia mi è riaffiorata nella mente e un forte brivido mi è partito da in cima alla testa, fino all’ultima falange delle dita dei piedi. Ho rivisto le immagini del film Kundun, che racconta tutta la sua vita fino all’esilio. E ho ricordato il mio sguardo attonito, inorridito, la prima volta che entrai a Lhasa e mi resi conto di cos’era un’occupazione. Il mio Tibet prigioniero, violentato, oppresso.
Ora qui vedo il mio Tibet libero, ma non in Tibet, libero di essere Tibet ma solo qui in India, non a casa sua. Qui i Tibetani sorridono davvero, anche se negli occhi hanno la malinconia dell’esule, di coloro che sanno che non vedranno mai la loro terra. Però almeno qui sono liberi di essere loro stessi, di pregare, di conservare le loro tradizioni millenarie, la loro storia, i loro manufatti, liberi di parlare, scrivere e insegnare la loro lingua, la loro scrittura, mentre guardano le montagne oltre le quali c’è il Tibet, il loro Tibet che di là, pian piano, sta scomparendo.
McLeod Ganj è davvero carina. Le viette piene di negozietti di artigianato tibetano, la piazzetta con i localini e i ristorantini e poi giù, la strada verso il Gompa, con le bancarelle piene di benedizioni, rosari e tutti i pellegrini che camminano facendo girare le loro ruote di preghiera.
Al mattino presto mi incammino verso il complesso monastico e al mercatino, prendo una decina di benedizioni da consacrare. Mi fermo di fronte a un murales in bianco e nero con scritto Free Tibet, davanti c’è un’anziana monaca che sta sgranando il rosario. Varco il cancello d’ingresso del complesso templare e mi dirigo verso la piazzetta, dove c’è l’ingresso del museo del Tibet. Al centro c’è un grosso cippo di marmo nero in memoria del genocidio perpetrato dai cinesi sui tibetani, in memoria dei milioni di morti e dei tanti altri che ancora ci saranno.
Qui sono conservate il 40% delle opere tibetane scritte, che i profughi sono riusciti a portare con se dal Tibet e a salvare dalla distruzione della rivoluzione culturale cinese.
Vado verso il Gompa. E’ nuovo e curato. Sotto il grande porticato della scuola monastica, un folto gruppo di studenti sembra quasi danzare mentre fa ginnastica ripetendo mantra a ogni movimento. Nelle piccole aule invece, alcuni monacini più piccoli stanno seguendo le lezioni.
Faccio la khora e mi confondo tra i pellegrini che fanno girare le ruote di preghiera e si inchinano fino a sdraiarsi di fronte alla statua di Avalokiteswara, il Bodhisatwa della Compassione di cui il Dalai Lama è l’incarnazione sulla Terra.
All’interno del Gompa è proibito scattare fotografie. Vi sono degli affreschi con dei mandala stupefacenti.
I più grandi artisti e pittori del Tibet hanno trovato rifugio qui a McLeod Ganj e qui hanno potuto finalmente esprimere liberamente le loro attitudini, le loro capacità e la loro arte. Le miniature sono finissime, i colori sgargianti, l’impatto visivo è forte, emozionante, grandioso.
Il Tibet libero ma non in Tibet, qui è libero di esprimersi in tutte le sue forme.
Mi si stringe il cuore a vedere tutto ciò, mentre a lato due anziane monache sono inginocchiate, una in fronte all’altra, con le mani giunte le une nelle altre fuse in un saluto che trabocca di significato: amore, compassione, condivisione, speranza. Tashi Delek.
E’ come se stessi camminando coi piedi sospesi per aria, continuamente ho dei flash back del Tibet, di Lhasa, Mindroling, Drepung, Ganden, Sera, Kumbun, Tashi Lumpo, Tingri, Rongpuk e qui. Ho gli occhi costantemente velati. Penso a Li Dong, il mio mentore in Tibet, un uomo che non rivedrò mai più, un grande teologo, una grande guida del paese più sofferto del tetto del mondo. Senza di lui non sarebbe stato semplice capire il mio Tibet. Ho ancora nel comodino la sua kata bianca con cui mi accolse a Tzetang e quella rossa con cui mi lasciò a Zanghmu. Ricordo Lama La, il vecchio saggio santo che parlava con gli animali, che conobbi nel suo eremo sui monti, dietro il monastero di Sera, proprio grazie a Li Dong. I suoi occhi vitrei per la cataratta lasciavano scoprire un mondo intero di esperienza, di storia e di estrema saggezza. Anni di carcere duro, e nonostante questo, ancora un sorriso meraviglioso.
Riemergo dai miei pensieri, esco dal Gompa e concludo la khora vicino a una stanza piena zeppa di candele di burro. Ripiombo di nuovo a Lhasa, quando una sera, sempre durante la khora del Jokhang, mi fermai di fronte al Gompa, colpita dalle luci delle migliaia di candele di burro di yak che illuminavano il Jokhang facendone oscillare le ombre. Come vorrei tornare in Tibet, quanto mi manca il Tibet, quanto manca proprio qui, a McLeod Ganj a tutti quanti.
La residenza del Dalai Lama è all’interno di un palazzo normalissimo, uno dei tanti costruiti intorno alla piazzetta verde, attorno a cui è stato costruito il complesso monastico.
Ripenso al suo sguardo denso di compassione, che ho avuto il piacere di incrociare poco tempo prima a Disket.
E’ arrivata l’ora di andare visitare il museo del Tibet.
Qui il silenzio, il rispetto del dolore e l’empatia sono palpabili, non appena varco la porta, subito a destra degli scalini d’accesso.
All’ingresso c’è una grossa bacheca con volantini, libri, documenti sul Tibet, le violazioni dei diritti umani, il famoso rapporto internazionale delle Nazioni Unite sulla tortura in Tibet, che finora avevo visto solo in formato elettronico su qualche sito per il Tibet libero. Vorrei prendere ogni cosa per leggerla con calma, ma decido di prendere solo le cose che non troverò in internet e di fare una donazione all’entrata, prendendo il libro prodotto dal museo sul Tibet sull’esodo dei tibetani e la storia vista dalla loro parte, raccontata dalla voce dei sopravvissuti.
Varco la soglia e entro il questo tunnel del ricordo e dell’orrore.
C’è una piccola TV che trasmette un cortometraggio che passa in rassegna i volti delle persone scomparse, giovani donne, giovani uomini, monaci e monache, ragazzini. Poi, dalle immagini in movimento, si passa ai filmati. Sembrano vecchi, ma alcuni sono del 2009. C’è gente che sta in ginocchio in piazza, ferma e muta in protesta passiva. I militari cinesi che caricano e bastonano fino a che la strada si macchia degli schizzi del loro sangue...sangue di gente pacifica e inerme, animi gentili e forti, che sono disposti ad affrontare questo e altri mille soprusi, solo per chiedere di essere liberi di essere tibetani in Tibet.
Nella grande stanza ci sono alcuni Tangka finemente miniati e tanti altri reperti che i profughi sono riusciti a recuperare dal Tibet.
Al piano di sopra ci sono delle teche piene di ritagli di giornale che documentano le proteste pacifiche fatte per il Tibet, sia in Tibet sia all’estero, vi sono foto dei centri di prima accoglienza dove giungono i profughi che sono scappati, affrontando giorni di cammino attraverso la catena Himalayana, verso la libertà.
Non avete idea di cosa voglia dire fuggire attraverso sentieri non segnati, valicando passi oltre i 5.600 metri, coperti di neve, con l’ansia di essere uccisi dai cecchini. Molti sono solo donne, bambini o nonni che portano in salvo nipoti, i cui genitori stanno marcendo in carcere. Molti di essi giungono stremati, con mani, piedi e naso congelati. Molti sono costretti a subire amputazioni. Ma meglio questo delle torture cinesi, meglio avere una possibilità di vita che una morte certa. Ecco che la mia mente torna a pensare e io mi perdo davanti a queste fotografie. Ho letto di monaci violentati, costretti a stare a piedi nudi sul ghiaccio, vestiti solo con pantaloni e casacca di cotone, sotto la neve con dei secchi pieni d’acqua in testa, immobili e bastonati a ogni goccia d’acqua lasciata cadere a terra, oppure lasciati sotto il sole dentro celle di metallo rovente. Ho letto di monache violentate con manganelli elettrici, lasciate nude senza cibo e ferite nel corpo e nell’anima per giorni. Il tutto solo per aver manifestato il fatto di essere Tibetani e non cinesi. Per aver manifestato pacificamente per il proprio paese, in occasione di ricorrenze come la data di occupazione, o il primo giorno dell’anno del calendario tibetano, oppure per essere stati trovati in possesso di una foto del Dalai Lama.
In internet sul sito di “freetibet” c’è il rapporto internazionale delle Nazioni Unite sulle torture in Tibet, io l’ho letto e sono felice di averlo fatto.
Nella sala affianco, ci sono delle vecchie foto in bianco e nero, che ritraggono il giovane Dalai Lama durante il suo viaggio verso l’India nel 1959. Poi in alcune teche, ci sono alcuni abiti dei profughi fuggiti dal Tibet, coi segni di ciò che han subito...non è un bello spettacolo, questa crudeltà umana, ma è da vedere perché questo è uno dei tanti genocidi di cui si parla poco, se ne parla così, ma non a fondo, un genocidio che in occidente non ha “giornata della memoria”. Sono milioni di persone innocenti uccisi barbaramente, zittiti barbaramente, ignorati barbaramente anche da noi.
E qui c’è il sito della più grossa organizzazione di sensibilizzazione internazionale sul Tibet:
http://www.savetibet.org/
E il sito del governo tibetano in esilio a McLeod Ganj:
http://www.tibet.net/en/index.php
E qui in ultimo il sito ufficiale del Dalai Lama:
http://www.dalailama.com/
Perdo la cognizione del tempo, quando esco sono stordita tanto il mio cuore è di nuovo gonfio di dolore.
I miei occhi sbarrati guardano verso un infinito che non c’è, una flebile speranza che tutto questo non si ripeta ogni anno, sempre, senza che nessuno lo sappia. Tra l’ignoranza dei molti si compiono immani tragedie. Non siamo tutti figli della stessa terra? Non dovremmo avere tutti la stessa opportunità di vivere una vita dignitosa e libera? Il Tibet libero è solo un miraggio.
Il Tibet libero ma non in Tibet è solo qui...a McLeod Ganj.
Esco in silenzio, i sorrisi dei pellegrini mi sembrano surreali. Ci sono nonnine che mi guardano negli occhi, forse vedendomi assorta, e mi sorridono con uno sguardo denso di benevolenza, mentre stanno facendo la khora.
Varco il cancello da cui sono entrata e ripercorro la stradina in salita piena di bancarelle, che porta verso la via principale di McLeod Ganj. Entro in un negozietto per comperarmi un po’ di Masala Tea da portare a casa. Già che ci sono prendo una borsa di tela marrone con scritto FREE TIBET per ricordarmi sempre di questo giorno e di ciò che ho visto e rivissuto.
Il bus mi aspetta al parcheggio e oramai mi rendo conto che sto lasciando definitivamente le alte terre per far ritorno nell’India vera e propria, con le sue vaste pianure monsoniche.
Qui finisce il mio viaggio in Ladakh e Himachal e in poco più di 220 kilometri sarò nella capitale del Punjab, Amritsar, la città santa dei Sikh, i guerrieri della fede, i difensori dei deboli, gli affascinanti uomini coi lunghi capelli raccolti nel turbante colorato, che portano sempre il pugnale alla cintola e dormirò con loro sui tiepidi marmi bianchi del Golden Temple, il Tempio d’Oro a loro più sacro.
Ma questo è un altro racconto del mio lungo viaggio che continua.