martedì, dicembre 20, 2016

la porta dell'inferno: la mia avventura in Dancalia

Il sogno nel cassetto
30 Agosto, tornata da una settimana da Phoenix, apro la posta e trovo la mail di Patrizia. L’Iran è mio. Il 26 novembre partirò per 16 giorni nell’antica terra di Ciro, Dario, degli Shah, degli Ayatollah, culla di cultura che sogno da anni. Ho chiesto due giorni in più, per fare due notti in tenda nel deserto del Kalut e spero che la mia proposta, una volta che avrò il gruppo, verrà accettata. Inizio a studiare, a leggere a vedere documentari.
I giorni passano e il mio splendido viaggio in Iran non riscuote il successo sperato. Ok, non tutti hanno ferie, non tutti viaggiano, ma c’è il ponte dell’8 dicembre e per i milanesi anche il 7 è festivo. Possibile che nessuno voglia partire per l’Iran? Ho ricevuto solo 3 chiamate, una il 30 agosto, dopo neanche mezz’ora che avevo il viaggio: “Ma il viaggio parte?”  mi chiede un ragazzo, io: “spero proprio di sì, intanto iscriviti”. Più sentito. Poi mi ha chiamata una signora e un altro nel mese di ottobre, dicendomi che sarebbero stati interessati, ma col viaggio a zero, aspettavano di vedere se si iscriveva qualcuno…Più sentiti. Insomma ai primi di novembre stavo sola, col mio Iran nel cuore, ma senza followers.  Questo sogno restava ancora nel cassetto.  Che fare? Alla fine il 10 novembre il viaggio è stato cancellato. Vabbè si vede che doveva andare così. Io credo sempre che nulla avviene a caso. Mai. E’ il karma.
Ho iniziato a vedere i voli per Kathmandu. Quando sono delusa, quando qualcosa va storto, quando non ho alternative, e quando mi gira, io penso sempre al Nepal, l’Himalaya, la mia seconda casa, il mio rifugio. Potrei fare il Gosainkhunda e l’Helambu. Ho messo giù l’itinerario, è perfetto, 8 giorni di trek puliti e il resto al Planet dai ragazzi. Sento Som, la mia fidata guida, ma lui sta partendo per il Manaslu.
Piombo nell’indecisione e nei pensieri caotici, vorrei partire. Poi, sempre perché nulla avviene a caso, vedo che un mio contatto, appassionato viaggiatore e travel blogger, andrà in Dancalia con degli amici tramite una agenzia locale Ethiope fidata. Gli scrivo. Lui mi racconta e mi da i contatti dell’agenzia, con cui poter concordare una partenza.
Che sia la volta buona che questo altro sogno si avveri?
La Dancalia
La Dancalia, la Danakil Depression, uno dei luoghi più inospitali della Terra, uno di quei viaggi che ho avuto in testa da una vita, ma sempre con scarse possibilità di realizzarlo, vista la sua durezza e anche la fama di essere un luogo poco sicuro.
Ora mi si apre un mondo.

La Dancalia copre un’area di circa 50.000 kmq a nord di una depressione per lo più desertica situata tra Ethiopia, Eritrea, Gibuti e Somalia che si estende per 150.000 kmq, nota anche come “triangolo Afar” per via delle genti che la abitano, gli Afar appunto, ed  è la zona di congiunzione di tre placche della crosta terrestre (il Mar Rosso, il Golfo di Aden, e la Rift Valley africana). Circa 10.000 Kmq del territorio dancalo si trovano sotto il livello del mare, ed è quindi una terra molto estrema fatta di deserti di lava, questo perché ha parecchi vulcani attivi, uno su tutti il famoso Erta Ale, che è uno dei soli 4 vulcani al mondo con camera magmatica “open air”. Altra peculiarità della Dancalia è la “Piana del Sale”, un immenso e spesso deserto salino di circa 6.000 kmq a circa 120 m sotto il livello del mare.
Altra cosa che rende il triangolo Afar unico è che qui è stata ritrovata l’ominide più antica al mondo, la nostra antenata, Lucy,  Australopithecus Afarensis: “ Il 24 novembre 1974, a Hadar, nel triangolo di Afar, i paleontologi Yves Coppens, Donald Johanson, Maurice Taïeb e Tom Gray rinvennero i resti di un esemplare femmina di Australopithecus afarensis dell'età apparente di 25 anni, vissuta circa 3,2 milioni di anni fa (Piacenziano). La chiamarono Lucy, in onore della canzone Lucy in the Sky with Diamonds dei Beatles, mentre in amarico è nota come Dinqinesh, che significa "Tu sei meravigliosa". Il suo nome in codice è A.L. 288 (Afar Locality n° 288).
I resti comprendevano circa il 40% dello scheletro (52 ossa). Particolarmente importanti l'osso pelvico, il femore e la tibia, perché la loro forma lascia pensare che questa specie fosse già bipede.
Era alta circa 1,07 metri, piuttosto piccola per la sua specie, e pesava probabilmente tra i 29 e i 45 kg. Aveva denti simili a quelli umani, ma il cranio era ancora scimmiesco, con una capacità tra i 375 e i 500 cm³. Morì sulle rive di una palude, probabilmente di sfinimento, e fortunatamente nessun predatore ne sbranò i resti, disperdendone le membra, così che il corpo, sommerso dal fango, si fossilizzò nel corso dei millenni fino a diventare roccia. Dopo milioni di anni il suo scheletro è ritornato alla luce quasi intatto e ci offre oggi una preziosa testimonianza sulla costituzione fisica degli ominidi di quel periodo”(fonte wikipedia).
Un viaggio in Ethiopia quindi è un viaggio in cui mi son sempre sentita sarei entrata in punta dei piedi, un po’ di nascosto, camminando molto tra il pavimento e la polvere, come si dice “schiscia schiscia”. In questa terra in cui l’essere umano, ancora ominide scimmiesco, si è evoluto a Homo Sapiens,  noi siamo stati coloni, invasori, usurpatori, e mi dicano quello che vogliono tutti, con il solito pretesto del “vi portiamo la civiltà”, come se questa cosa appartenesse solo a noi europei, noi italiani siamo andati lì con la presunzione che la nostra civiltà era quella giusta, quella da seguire, quella da esportare, ignoranti del fatto che in queste terre è invece nato l’Uomo e con una idea anche piuttosto approssimativa del luogo, tanto che appunto in epoca coloniale si identificava la Dancalia con l’intero triangolo dell’Afar, invece che con la sua sola porzione settentrionale. Per me restiamo invasori punto e basta, in terra d’altri, senza che ci venisse chiesto, alla pari di come lo sono stati tutti gli altri invasori nel mondo.
Non sono una viaggiatrice d’Africa, son stata solo in Namibia in tenda per 25 giorni, che ne so io di Africa? Niente.  Questo continente mi è ancora ignoto, non ne conosco bene le dinamiche sociali, so che è un luogo dove tutti sono andati a mungere per poi mingere sulla sua gente. E’ un continente che per quel poco che ho visto, mi ha portato sensazioni di vergogna, di piccolezza, di inadeguatezza. Sì, non mi sento a casa lì. Mi sento inadeguata. Mi sento guardata con sospetto, al limite dell’ostilità, che forse, anzi sicuramente confondo invece, con l’atteggiamento di fierezza e l’habitus delle persone che abitano questa Terra meravigliosa, che ha dato l’origine al genere umano.
La prima volta che pensai all’Africa, non solo come terra abitata dagli animali selvaggi, fu quand’ero ragazza, e lessi Radici, vergognandomi del genere DISUmano. Questo continente violato, da allora l’ho sempre un po’ visto con timore reverenziale, e ora finalmente ho preso la decisione di andare e entrare nel mondo dove tutto ha avuto inizio.
e che l'avventura abbia inizio
Il volo Ethiopian parte puntuale da FCO e mi porta a Addis Abeba in una fresca mattina di dicembre. Fresca si fa per dire. E’ l’aria che è fresca, il sole invece picchia già bello forte e mi ricorda subito quanto io sia poco avvezza ai luoghi caldi e soleggiati.
In valigia non ho quasi nulla, ed è piena di vestiti per bambini da lasciare a una associazione in città e di occhiali da sole, che lascerò invece ai lavoratori del sale alla Piana del Sale.
Conosco la guida che parla un perfetto italiano, avendo studiato in una scuola italiana e il driver Mustafa, un omone tutto d’un pezzo con un sorriso che mette pace solo a guardarlo.
Si passa a casa di Elisabetta, che ha preparato un’ottima crostata di marmellata, brioche, e una bella frittata di zucchine, il tutto condito da ottimo caffè Ethiope e buon tea. In aereo non hanno neanche servito la colazione, quindi questa casalinga cade davvero a fagiolo.
Addis Abeba – Sembete - Dessiè 387km in jeep su strada asfaltata (più o meno 8 ore escluse le soste)
Poi via in jeep sulla strada che, costeggiando l’altopiano, si affaccia sulla piana disegnata dal fiume Awash. La vegetazione è rigogliosa, il verde è brillante e le montagne che si vedono fanno davvero venir voglia, già al primo giorno, di ripianificare altri viaggi per vedere le altre bellezze di questo paese.
Una prima sosta la facciamo in un punto panoramico a picco sull’altopiano, dove con una bella botta di fortuna, si avvicinano un gruppo di Gelada. Il babbuino Gelada è una grossa scimmia della famiglia dei Cercopitecidi, che vive solo sugli altopiani pietrosi dell'Etiopia. È l'unica specie vivente del genere Theropithecus, questi animali sono i primati più terricoli del mondo a eccezione degli esseri umani e hanno mostrato di utilizzare un linguaggio con analogie impressionanti con quello umano. Li guardo stupita. Sono davvero belli.
Qui tira un vento fresco che ti porta via. Fosse così il clima per tutto il viaggio, per me sarebbe oro.
Ci si ferma per un pranzo a base di pane, uova e formaggio, e dopo aver mangiato l’arancia con la scorza più dura della storia e assaggiato finalmente un po’ di verdure stufate dal piatto della Guida, con la mitica injera, crepe tipica dell’Ethiopia fatta con farina di teff lasciata fermentare, che viene usata per portare il cibo alla bocca, si riparte alla volta di Sembete.
In questo villaggio si tiene un mercato domenicale. Non c’è nulla per i turisti, solo mercanzie che servono ai locali, quindi per questo è molto autentico. Vendono di tutto, dalle stoffe ai cereali, dalle spezie alle verdure, dalle scarpe ai catini. La gente, a parte i bambini, guarda un po’ diffidente e sorride a fatica. Questo mercato ha su di me un impatto molto diverso dai mercati che sono abituata a frequentare altrove nel mondo, mi sento un po’ un pesce fuor d’acqua, non so ancora interpretare gli sguardi delle persone, i loro gesti, e ho timore di offenderli da intrusa in questo nuovo mondo. Faccio un giro di una mezz’ora da sola e poi raggiungo Mustafa che mi offre le foglie di Qat, da masticare tipo quelle di Coca che si usano sugli altopiani andini. Le foglie di questa pianta contengono un alcaloide dall'azione stimolante, che causa stati di eccitazione e di euforia, ma io non sento assolutamente nulla.
Si va via verso Kombolcha, per poi fermarsi per la notte a Dessiè, città a 2400m ancora sull’altopiano nella regione Amara. Questa città stava sulla direttiva fatta dai coloni italiani, che collegava Addis Abeba ad Asmara, prima che Ethiopia e Eritrea si dividessero. I coloni fecero questa strada asfaltata unitamente a quella che da Dessiè sfociava nel porto di Assad, per facilitare gli scambi commerciali. Ora che Ethiopia e Eritrea sono ben divise, Dessiè ha perso molto la sua importanza strategico commerciale.
La giornata è stata molto lunga. Arriviamo all’Hotel Melbourne alle 19.00. Questa è un’ottima sistemazione, coi letti grandi e lenzuola e candidi piumini, e la cena non è niente male, un bel po’ piccante, ma buona e tipica: crema di ceci, injera, spezzatino.
La sera stiamo a chiacchierare per conoscerci. Siamo tutti viaggiatori seriali, che quando possono cercano di essere il più possibile autonomi. Cani sciolti. Esploratori del Mondo, cittadini del Mondo. Leghiamo tutti subito. Un gruppo stupendo.
Dessiè – Bati - Adfera Lake circa 400 km su strada asfaltata (più o meno 9 ore escluse le soste)
La mattina successiva, dopo una abbondante colazione, si va via presto, perché anche oggi i chilometri per avvicinarci alla Dancalia sono molti. Scendiamo a valle e ci fermiamo in un motel locale in mezzo a un arido nulla.
Qui il paesaggio è cambiato. Fa caldo. Per me già troppo caldo. Ma sono nell’ordine delle idee che già so che sarà così d’ora in avanti. Qui macellano un capretto e lo cucinano semplicemente in padella accompagnato da una deliziosa crema di ceci servita con dell’ottimo pane bianco morbido e un bel po’ di pezzi di injera. Ci sono bibite fresche, acqua e birra. E ci sono un sacco di gatti. Piccolini. Tutti tenuti stra male. D’altronde non mi stupisce sia così, dopo aver visto in strada adulti cacciare bambini curiosi a calci. La vita qui è davvero dura.
Proseguiamo per Bati, dove nel locale mercato, si tiene il mercato dei Dromedari. Siamo oramai alle porte della Dancalia e qui si vendono i camelidi che vanno poi a costituire le fiabesche carovane del sale, che dalla notte dei tempi, con la loro andatura altalenante, percorrono le stesse rotte e lo trasportano dagli avamposti più remoti nel deserto di sale dove viene raccolto, ai mercati alle porte dei fertili altopiani dove viene venduto. Qui vediamo anche le varie etnie, Oromo, Afar, Amhara.
E qui finalmente “entro” tra la gente come sono solita fare. Per me è una liberazione, come varcare la porta di ingresso al viaggio. Mi siedo con delle donne che vendono cipolle, ridiamo, comunichiamo, poi si avvicinano uomini e la gente mi sorride. Quasi mi commuovo. lo sento il nodo alla gola, quando entro davvero nel viaggio.
Fuori dal mercato si beve un caffè ethiope sapientemente preparato da una bella signora di Bati.
L’aria che entra dai finestrini della jeep è un phon e la sera, dopo il tramonto, quando giungiamo finalmente a Adfera, ci sono ancora 38°. Questo avamposto è abbastanza agghiacciante. Una fila di baracche di lamiera e legno sgangherate a bordo strada e innumerevoli camion parcheggiati ovunque. Oltre, la strada prosegue costeggiando il lago fino ad arrivare al campo dove passeremo la notte.
Una volta lì, troviamo un gruppo di tedeschi e un gruppo di nipponici, anche loro con i propri campi, e finalmente incontriamo i nostri cuochi, che stanno già preparandoci la cena. Le tende sono montate in riva al lago di sale.
Fa un caldo porco e mi prende un momento di scoramento. Poi per fortuna decido di fare il bagno nel lago che non mi darà refrigerio, ma mi aiuterà di certo a abituarmi alle temperature di questa terra che molti chiamano “la porta dell’inferno”.
Da oggi fino alla fine del viaggio non avrò più acqua per lavarmi, quindi un bagno va fatto.
Metto i piedi in acqua e un po’ mi passa la voglia di entrare. E’ calda, più calda della cappa che c’è in aria. Poi mi faccio forza e entro. Effettivamente un po’ di correnti più fresche ci sono, e mi ambiento così, pian piano. La luce che c’è è meravigliosa, le stelle e la luna a falce di più. Quando esco, devo togliermi il sale di dosso.
Li accanto hanno detto esserci una sorgente di acqua dolce, dove portesi sciacquare. E’ protetta da un recinto di arbusti. E’ una piccola piscina naturale alimentata da una cascatella sorgiva. L’acqua però è rovente, peggio di quella del lago, più un fastidio che un piacere, con il caldo che c’è fuori. In ogni caso ci entro e mi sciacquo dal sale. Quando esco l’aria tiepida che soffia in riva al lago mi asciuga in pochi minuti senza dover usare nessun asciugamano.
Tolto il costume e rivestita, torno al tavolo per la cena. Ottimo pollo in umido con riso e verdure. Dopo cena grandi chiacchiere e risate tutti insieme. Poi faccio sistemare un telo davanti alla tenda e, messo lì sopra il materassino e il mio sacco lenzuolo, mi addormento sotto le stelle.
Afdera Lake - Erta Ale 240km di jeep in parte su strada asfaltata in parte su pista  di cui gli ultimi 12km su terreno lavico (6 ore circa escluse le soste). Da Erta Ale Base Camp a Erta Ale Summit (613mt) a piedi per circa 500mt di dislivello di lungo sviluppo (3h.30)
La mattina, il sole non è ancora sorto e il cielo ha le sfumature che vanno dal rosa al viola fino a finire nelle acque blu del lago salato dove, pian piano che i minuti passano, diventano arancio e poi rosse mentre delle sagome nere di persone nuotano e si bagnano e il sole sale dalle acque all’orizzonte.
Sono da poco passate le 6 quando mi alzo e ripiego le mie cose per andare a fare colazione.
Ci incamminiamo a piedi attraverso le saline portandoci almeno due litri di acqua a testa, perché cammineremo almeno fino alle 10 e farà molto caldo senza nessun riparo dal sole. Visitiamo le vasche del sale dove viene pompata l’acqua dal lago e vediamo l’area di lavoro di estrazione del sale in compagnia di una guida/lavoratore che ci illustra come viene fatta la lavorazione fino alla produzione dei sacconi da 20kg di sale iodato, che finirà nelle tavole della gente comune.
Arrivati a Afdera entriamo in una sorta di bar baracca, dove tutte le notti i camionisti fanno bisboccia. Un po’ di birra fresca una Cocacola zuccherosa e via.
Ci si ferma su promontorio a vedere il lago dall’alto e le tombe Afar, che sono ammassi di pietre dalla forma cilindrica.
Ora andiamo verso l’Erta Ale.
Raggiungiamo il villaggio Afar di Kurswat, dove arriviamo in tarda mattinata e dove prenderemo i permessi per poter accedere al vulcano. Qui ci verrà affidata una guida Afar e anche un contingente armato, due poliziotti Afar, due militari che, armati di Kalasnikov veglieranno su di noi in questa terra tanto miticamente ostile.
A Kurswat, invece dei diffidenti guerrieri Afar, ci accoglie un “contingente” di bambini che sorridenti vogliono farsi fare mille foto in tutte le pose e con tutte le facce possibili. Qui c’è anche una scuola in muratura, oltre al villaggio, se tale si può chiamare, di capanne fatte di rami sbilenchi e paglia.
In teoria la forma delle abitazioni Afar (Burra) varia a seconda di diverse tecniche di costruzione e dei materiali disponibili sul luogo. In generale, si tratta di piccole capanne con armatura di rami, ricoperte di stuoie, a forma di cupola emisferica. Oppure sono fatte di pietre a secco ricoperte con un tetto di pelle di bue.
Mangiamo pane, uova e formaggio  in una di queste capanne, in silenzio mentre accanto, il capo villaggio sta discutendo animatamente con un contingente armato. Qualcuno teme che non dia i permessi. Ma va poi tutto liscio.
All’altezza di Durubu si prende la deviazione su terreno lavico per il Campo Base dell’Erta Ale. Sono 12km ma ci si impiega più di un’ora per percorrerli. Il paesaggio è lunare o comunque molto aspro, disseminato di bombe laviche di colore bruno. All’orizzonte la lieve collina del vulcano appare pacifica, con uno sbuffo di fumo che si vede appena staccarsi e dissolversi nel cielo alla sua sommità.
Arrivati al campo troviamo un gruppo di igloo di pietra Afar che mi sembrano una brutta copia delle case dei Flinstones, con rami sbilenchi e le pelli usate come tetti. Attorno delle trincee, hanno al loro interno dei pupazzi vestiti da militari con armi di legno, che sembrano degli spaventa passeri guardiani dell’orizzonte nemico.
Che posto allucinante, eppure di una bellezza unica.
Restiamo all’ombra dopo ver fatto uno spuntino, fino a quando cala il sole. Solo allora il nostro materiale da campo, cibo e materassini inclusi, viene caricato sulla groppa di dromedari che ci seguiranno nell’ascesa del vulcano.
Sul far della sera ci incamminiamo nella sabbia, tra piccoli cespuglietti secchi. Una guardia armata in testa e una in coda, come i soldatini in fila.
La salita è dolce, impercettibile, lunga ma per niente faticosa. Camminiamo alla luce delle pile frontali, cercando di evitare i datterini prodotti dai dromedari (le cacche), che come le molliche di pane di Pollicino, indicano la via per la cima.
A circa mezz’ora dalla sommità, bagliori rossi di fuoco illuminano il cielo accompagnati da sinistri rumori lontani. Aumento il passo. A questo punto sono come l’asino con la carota. Camminare su una montagna, qualsiasi essa sia, mi da una carica di energia immensa, Endorfine come se piovessero, felicità. Una sensazione che non so spiegare a parole, ma che è un insieme di piacere, pace, energia, soddisfazione, in una parola direi Apogeo! Sì forse sì. Quando arrivo su trovo di nuovo le casette dei Flinstones e una giapponese che avvisa: “We are lucky, a new crater was born a week ago”.
foto di Daniela Toson
Moahmed Alì, la guida Afar, sgambetta veloce a bordo cratere, mostrandoci la via, finché giungiamo al miglior punto panoramico raggiungibile in sicurezza. Il vulcano è in forte attività e, come annunciato dalla nipponica, una settimana fa si è aperto un altro cratere con una splendida fontana di lava che lo alimenta a spruzzi e botti alternati a flussi più compatti. Mentre stavamo lì a guardare questo cratere è esondato in una altra camera magmatica attigua. La guida e i militari ci hanno proibito di scendere giù nella caldera. Il magma è molle, la camera magmatica non è sicura. E’ sul serio pericoloso. Dobbiamo quindi accontentarci di vederla dall’alto.
La bellezza dello spettacolo a cui sto assistendo è talmente tanta che non lascia spazio alla delusione di non poter scendere giù. Che emozione unica, mai provata in vita mia. Ringrazio la Tana Lake che ci ha radunati e ci ha dato l'opportunità di realizzare questo sogno.
Arrivano i dromedari con la nostra cena e i nostri materassini. Mangiamo e poi, sistemiamo i nostri giacigli tutti vicini sotto le stelle. Le case dei Flinstones le lasciamo ai sorcetti che popolano questo cratere, noi restiamo a vedere le stelle cadenti sulla cima dell’Erta Ale, fino a quando non veniamo rapiti da Morfeo e dal mondo dei sogni.
Erta Ale Summit – Erta Ale Base Camp a piedi (circa 3 ore) poi 110km in Jeep a Hamed Ela prevalentemente su pista (circa 8 ore senza contare le soste)
Alle 4 del mattino è ancora buio, ma le guardie e la guida ci svegliano. Dobbiamo scendere.
Mi incammino velocemente giù, seguendo Moahmed Alì che, col kalashnikov in spalla, sgambetta pian piano alla luce delle lampade frontali.
Pian piano fa giorno e mi ritrovo a camminare su vere e proprie onde di lava solidificate, che la notte prima, al buio, non avevo potuto apprezzare. E’ uno spettacolo unico. Qui è tutto un’eruzione. Meraviglioso. Moahmed Alì aumenta il passo e poi aspetta sorridendo. Anche gli Afar sorridono, basta un poco di pazienza, tanta umiltà e gran rispetto, e le braccia della gente si aprono per accoglierti, anche qui.
foto di Stefano Marini
Arrivati al campo base, fa già molto caldo, i nostri ragazzi ci hanno fatto trovare un catino con una tanica d’acqua, che da diritto più o meno a tre bottiglie da litro a testa per darsi una sciacquata, giusto per levare un po’ di polvere.
Facciamo una abbondante colazione e poi riprendiamo le jeep, prima sulla pista di lava, poi su sabbia e poi su strada.
Sostiamo nei pressi di Waiddeddo, per pranzo, dove i nostri cuochi ci hanno preparato un’ottima pasta con le verdure. Sti ragazzi son davvero bravi, sanno cucinare tutto in ogni condizione e la pasta non era neanche scotta. Era buona.
Prima di arrivare a Hamed Ela, alle porte della Piana del Sale e del Lago Assale, sostiamo a vedere la prima vera carovana di dromedari che trasporta il sale illuminata dalle luci calde del tramonto.
Quando siamo a Hamed Ela è già buio e i nostri cuochi sono intenti a farci una carbonara molto naif, accompagnata da ottime verdure stufate.
Qui non c’è davvero nulla, solo un gruppo di capanne Afar, da cui arrivano in prestito i nostri letti, che non sono altro che delle intelaiature di corde intrecciate tenute insieme da quattro sbilenche gambe di legno. Sembrano pessimi visti così, ma è solo apparenza, sono comodi con il materassino posto sopra. Sotto circola aria e non sei a contatto col suolo che è caldo.
Il niente circostante è surreale. Anche per andare in bagno, a parte che in questo viaggio il bagno è solo open air e sempre senza acqua, bisogna fare centinaia di metri a piedi nel sale, per stare lontani e un po’ in intimità, visto che non c’è nessun tipo di riparo. La pipì di questa sera è stata divertente. Ci siamo dirette verso l’unico cumulo di pietre che si vedeva in lontananza, credendo che potesse fungere da riparo, ma una volta giunte lì, ci siamo accorte che era una sorta di spartitraffico all’incrocio di due piste carrozzabili. No way out.
La sera, prima di cena, recuperiamo delle birre nell’unica baracca che le ha, dove vi è anche una grossa TV che tutti i presenti guardano seduti come al cinema.
Poi, tornati al campo ceniamo, e ci godiamo la bella brezza che da un gran sollievo dopo il caldo diurno.
Per la notte mettiamo i letti di fianco alle jeep e ci addormentiamo come sempre sotto le stelle, tra una capra che pascola e un asino che raglia.
Amed Ela – Piana del Sale – Dallol – Lago Nero – Lago Assale – Assa Bolo 70 km in jeep (circa 3 ore senza contare le visite e le soste) e circa 3 ore a piedi

foto di Stefano Marini
Al mattino qualcuno di noi, che non aveva i tappi per le orecchie, si è svegliato ben prima dell’alba con le ruote di un camion di fianco al letto e un gruppo di lavoratori del sale che guardavano dall’alto. In pratica abbiam messo i letti in mezzo alla pista, senza accorgercene, in mezzo alla strada. Senza luce, di notte non si distingueva la strada.
Io mi sveglio all’alba e per fortuna ho l’abitudine di mettermi nel sacco lenzuolo a mo’ di mummia egizia, perché fuori ci sono nuvole di mosche che ronzano e ti si appoggiano ovunque. Mai vista una cosa simile. Quando mi alzo devo sventolare tutto e rischio di mangiarmene qualcuna a colazione visto che sul nostro tavolo, col cibo coperto, volano sciami interi.
Prendiamo le jeep e ci inoltriamo nel nulla più totale del deserto di sale. Caldo, tanto caldo. Ma coi finestrini aperti entra un’aria che è una manna dal cielo.
Sostiamo a un centinaio di metri da un campo di estrazione del sale nella Piana del Sale. Faccio le foto con gli splendidi esagoni che si perdono all’orizzonte e, se non fosse per le carovane di dromedari che rompono la linea dell’orizzonte e se non fosse per i 40° già di prima mattina (non sono neanche le 9.00) mi sembrerebbe di stare al Salar de Uyuni. Quando feci il viaggio in Bolivia mi venne il pallino della depressione Dancala.
Ero tra i geyser, vulcani, saline, nel luogo più alto del mondo e mi venne il trip di quelli nel luogo più basso.
Entrambe terre inospitali ma agli estremi opposti. Lì stavo a -20 la notte e di giorno, se andava bene, c’erano 8°C, qui siamo a una media di 40° e siamo anche fortunati, perché la guida ci ha confessato che a novembre di quest’anno, l’ultima sua visita al Dallol toccò i 56°C.
foto di Stefano Marini
La Piana del Sale è uno dei posti più inospitali della Terra dove un uomo può lavorare. Non c’è un filo d’ombra a portare un po’ di ristoro a chi lavora per ore sotto il sole cocente, abbagliato dai raggi che si riflettono sui cristali di sale. Il risultato è che il grosso delle persone che stanno qui soffrono di patologie agli occhi, che vanno dalla banale congiuntivite fino al distacco della retina. E il fatto di non avere acqua dolce per potersi sciacquare di dosso il sale, non aiuta per niente.
I lavoratori del sale arrivano la mattina all’alba con dei camion e lavorano sotto il sole fino alle 14.00. Hanno solo un piccolo punto di ristoro dove possono bere un tea al sole. Un posticino delimitato da quattro pietre di sale, con due taniche di acqua, una teiera che si scalda da se per terra e quattro tazze bisunte. Il niente più totale. Ma qui vale più che altrove il detto: “meglio di niente”.
Vedere questa miniera a cielo aperto è stato molto toccante. Ho portato con me 30 paia di occhiali da sole, che ho distribuito ai lavoratori. E veder un loro sorriso è stata una bella emozione. Basta molto poco per dare un po’ di sollievo a qualcuno, anche se io me la sono vissuta in modo un po’ diverso, diciamo che è stato un misero baratto il mio. Sono qui a vedere il lavoro duro di queste persone, in cambio di una manciata di occhiali da sole. Ho pensato ai mineros della Mina del Diablo di Potosì, a cui portai dinamite, aranciata, nitrato di ammonio e un sacco di foglie di coca. Altro lavoro disumano, altro luogo durissimo, altra gente che, con poco in cambio, mi ha regalato un sorriso.
La piana del Sale si estende per circa 200km di larghezza (6.000kmq di superficie) e il sale viene raccolto a zone, così facendo si da la possibilità al deserto di sale di riformarsi, grazie al sottile strato di acqua che viene a ricoprirlo quando sugli altopiani piove, e si può quindi avere un ciclo estrattivo continuo. Il sale viene spaccato in zolle coi picconi, in corrispondenza delle giunture dei suoi cristalli esagonali e la zolla viene poi sollevata con dei grossi bastoni di legno dai Tigrini.
Agli Afar invece spetta il compito di  scolpire e pulire le zolle di sale facendole diventare “ganfur”, perfette tavolette bianche del peso dai 5 ai 7 kg l’una. Le tavolette perfettamente rifinite, vengono poi legate insieme e caricate sulla groppa dei dromedari.
Le carovane così formate, percorrono centinaia di chilometri attraversando la Piana del Sale e il Canyon del fiume Saba (Assa Bolo Canyon) fino a giungere nell’altopiano, ai mercati dove il prezioso carico viene commercializzato da secoli.
Con le jeep attraversiamo il Lago Assale, il lago di sale, per arrivare a uno degli spettacoli più strabilianti e magnificenti che madre natura ha saputo creare sul pianeta Terra: il vulcano Dallol.
Il deserto di sale inizia a perdere la sua suddivisione in cristalli e a colorarsi di bruno fino a diventare arancio alla base di un lieve ma largo promontorio ocra, dove fermiamo le jeep. Ci portiamo due litri d’acqua e ci bagnamo la testa e i copricapi per cercare di abbassare la temperatura delle nostre teste, poi iniziamo a salire sulla collinetta. In circa 15 minuti arriviamo sulla cima di questo cratere che ci si apre davanti a perdita d’occhio con i suoi colori psichedelici.
Qui siamo a un tempo zero e tutto il resto perde ogni senso, sarà il caldo, saranno le esalazioni che si respirano, ma lo spettacolo che si vive qui è adrenalina e magnificenza pura.
Questa zona desertica e desolata a circa 116m sotto il livello del mare, vanta tra le temperature più alte della terra ed è conosciuta per le sue formazioni geologiche e cristalline che sono uniche al mondo: vasche a terrazzamenti gialle e verdi fosforescenti di acidi, delimitate da cornici di cristalli di sale e concrezioni di evaporiti, di zolfo, di cloruro di magnesio o di soda solidificati, si alternano a piccoli gayser gassosi fumanti, le cui emissioni sono tossiche, e a formazioni arancio, rosse e marroni, sorta di concrezioni a forma di spugna formata da cristalli di sale.
Sorgenti calde acide, montagne di zolfo, coni di sale e acque nere si alternano a acque azzurre, cascate bianche di carbonati che emettono zampilli gialli e il tutto cela al suo interno acidi e sostanze tossiche che provengono dal centro della Terra.
Non ci sono parole per descrivere il Dallol che vive e cambia forma continuamente lasciando stupefatti tutti coloro che lo visitano, con i suoi colori allucinanti.
Il cratere del Dallol si è creato da una esplosione di una camera magmatica della Rift Valley, posta sotto un deposito di sale, che è rimasto lì dopo che il Mar Rosso si è ritirato.
Nella lingua Afar, "Dallol" significa "disciolto", questo per via delle sue sorgenti e vasche acide che spesso diventano trappole mortali per animali e uomini.
L’area, che è pregna di cloruro di potassio, sodio e magnesio, è stata in passato oggetto di sfruttamento anche da parte dei coloni italiani, finito poi in nulla dopo la fine della prima guerra mondiale anche per la durezza e ostilità dell’ambiente. Qui infatti c’è una sorta di città fantasma, abbandonata: il sito estrattivo del potassio degli Italiani.
La visita del Dallol è talmente spettacolare che non ci si rende conto, ne del tempo che passa ne della temperatura elevata che si sta subendo. Io sono fortunata perché i miei due litri di acqua me li sta portando un soldato.
Arrivati al villaggio estrattivo si prende la via del Canyon delle Colonne di Dallol che arriva alla Porta della Dancalia. Un cammino tra magnificenti e giganteschi pinnacoli di sali solidificati su un terreno scosceso e aspro che in alcuni punti assume la forma di lame taglienti di sale. Uno spettacolo mai visto. Unico al mondo.
Una volta arrivati alla porta della Dancalia, finalmente si trova l’ombra dopo più di tre ore di cammino al sole. Qui ci sono le nostre jeep coi ragazzi che ci servono un ottimo pranzo sulle stuoie.
Dopo una meritata siesta, proseguiamo in jeep per il lago nero. Un cratere dalle acque scure e ribollenti a 70° che hanno al loro interno gran percentuale di cloruro di magnesio.

Una altra vasca acida, che spesso è letale per gli animali che la credono essere un sollievo per la loro sete, e dopo averne bevuto le acque, muoiono all’istante. La nostra guida Afar, si riempie una bottiglia di plastica con questa broda, dicendo che è oleosa e fa bene alla pelle. Io resto un po’ perplessa.
Tutto attorno al cratere si aprono formazioni e concrezioni saline spettacolari e altre piccole voragini di acque pericolose e gorgoglianti e camminarci attorno è una esperienza favolosa.
Ci avviamo in jeep per il Lago Assale facendo una sosta in un punto dove è allagato, ricoperto da uno strato di qualche centimetro d’acqua che lo rende uno specchio all’infinito.
Questo effetto non ero riuscita a vederlo a Uyuni, in quanto in inverno è secco e non c’è acqua, ma qui in Ethiopia ci sono riuscita. Scendo dalla jeep a piedi nudi, i cristalli di sale mi pungono i piedi, e mi incammino verso il nulla, verso l’orizzonte dove il cielo si confonde con lo strato d’acqua specchiandosi perfettamente e ti sembra di camminare sulle nuvole in cielo, non capendo più dov’è il sopra e dov’è il sotto.
Ripresa la jeep si sosta alla vista dell’arrivo delle carovane del sale all’orizzonte. Ci passano accanto placide e lente, col loro passo oscillante e cadenzato che percorre queste lande inospitali per centinaia di chilometri da centinaia di anni, sempre allo stesso modo.
Poi, queste carovane si perdono all’orizzonte dall’altra parte, dove la piana del sale finisce e inizia il canyon. Si perdono al tramonto, nere in contro sole, mentre i cristalli della piana del sale scintillano argentei sotto i loro passi.
Rientriamo verso Hamed Ela e ci fermiamo all’unico ristoro locale, la baracca dove la sera prima abbiamo fatto un giretto prima di cena. Siamo abbronzati, stanchi e felici e da qui ripartiamo per Assa Bolo, dove faremo campo all’ingresso del canyon, nei pressi di un gruppo di capanne Afar fatte di pezzi di tronchi secchi.
Anche qui i locali ci danno i letti di corda intrecciata con le gambe sbilenche di legno, in cambio di una donazione. Noi ci mettiamo sopra i materassini con le nostre cose e i giacigli son pronti, meravigliosi sotto la stellata più bella che potessimo desiderare.
Questo campo è di una bellezza senza tempo. La sua semplicità, il fatto che è circondato da alte rocce e che alla sua base ha il fiume che scorre, lo rende un’oasi stupenda. Qui c’è un via vai lento delle carovane del sale, che salgono verso Berhale per portare il sale e che scendono da lì per andare alla piana del sale a riprenderlo, in un movimento continuo che non ha fine da anni.
Dalla collinetta le vediamo passare lente sul greto del fiume, mentre i carovanieri chiacchierano o cantano al buio nenie del passato.
La prima cosa che facciamo è mettere il costume e andare al torrente Saba a lavarci. L’acqua non arriva a metà polpaccio, ma il solo fatto di avere acqua corrente è una meraviglia. Poi esaltati dalla bellezza del luogo, nonostante faccia caldo, accendiamo un falò.
Così la nostra serata, la nostra cena sotto le stelle, è ancora più suggestiva. Anche sta sera le chiacchiere e le risate non sembrano aver fine.
Assa Bolo – Melabday 18 km a piedi attraverso il canyon (circa 7 ore senza contare le soste)
foto di Daniela Toson
La mattina all’alba prendo le mie cose e scendo al fiume per un bel bagno. Mi lavo i capelli in una vaschetta naturale sotto una piccola cascatella. L’acqua è alla temperatura ideale, scorre veloce e non vorrei più uscire, ma devo, oggi abbiamo il trekking e io non vedo l’ora di camminare, anche se so che patirò il caldo da morire.
Mi sono lavata ma so di pesce. Che ridere.
Colazione con omelettes e grissini e nutella. Alcuni di noi partono prima con un poliziotto Afar, io e altri tre partiamo una mezz’ora dopo con l’altro militare, ma ci raggiungiamo quasi subito.
L’Assa Bolo Canyon è la via carovaniera che conduce all’Altopiano del Tigray ed è uno spettacolo da percorrere a piedi. E’ quasi tutto al sole, ma il fatto di poter farsi il bagno nel fiume ogni volta che si incontra una cascatella o una vasca naturale, da parecchio sollievo al caldo. Il percorso è a tratti tortuoso e a tratti lineare, mai troppo stretto e in alcuni punti molto largo, ed è un continuo guado, cosa che ci tiene i piedi al fresco.
Spesso si incontrano le carovane che sono di passaggio in entrambe le direzioni, e altre che sono in sosta, mentre i carovanieri stanno cuocendo il “borgutta”, il pane cotto attorno alle pietre roventi, e sorseggiano un buon tea.
A metà strada ci raggiungono i nostri viveri per il pranzo a bordo di asinello e sostiamo all’ombra di alcune grosse rocce.
Pian piano il Canyon si restringe e le rocce circostanti degradano. Questo lungo e lento risalire il fiume seguendo la rotta carovaniera è meraviglioso.
Facciamo l’ultimo bagno in una grossa vasca naturale nei pressi di una cascatella e poi, dopo qualche ora, arriviamo a Melabday.
A Melabday c’è l’ultima scuola prima del Canyon che porta al nulla della depressione Dancala. Qui al villaggio facciamo campo, prendiamo sempre i soliti letti in affitto. Io sono decisamente stremata dal caldo e mi sono presa un colpo di calore.
Ringrazio un sacco gli abitanti di questo villaggio e i miei compagni di avventura, che mi hanno aiutata vedendomi in difficoltà. Poi col tramonto e la sera mi riprendo, sia mai che mi faccio intimidire per 40° e più.
Stiamo tutti a tavola e aspettiamo la cena, che sarà a base di agnello alla birra, grazie alla fantasia di Massi, che mi sa dev’essere davvero un gran cuoco. Altra stellata stupenda. Altra notte meravigliosa e tranquilla.
Melabday – Berhale – Makallé 195 km in jeep (6 ore circa) poi volo per Addis Abeba e coincidenza per MXP
La mattina una buona colazione e poi si fa conoscenza con la gente del villaggio. Una nuvola di bambini bellissimi e tanti volti sorridenti ci circondano.
Si riprende lo sterrato che porta al villaggio di Berhale dove si fa sosta per vedere il mercato del sale e il mercato locale.
Compero un chiletto di farina di ceci per fare la strepitosa crema di ceci e poi ci rimettiamo sulla via verso l’altopiano che ci porta a una chiesa Tigrina del gruppo Atsbi. Micael Barka, risalente al XIII secolo, a pianta cruciforme sostenuta da 12 colonne, che ha un soffitto ricco di affreschi, purtroppo non ben conservati, ma che rende bene l’idea di cosa devono essere le altre chiese del Tigray più famose.
Siamo tornati all’Ethiopia verde e rigogliosa, al suo altopiano fertile, fresco e ventilato. Questo è un paese dove si deve tornare, è un paese che ha innumerevoli bellezze diverse da vivere, insieme alle sue tante genti così peculiari e così belle.
Arriviamo a Makallè per le 14.00 e ci attende un ottimo pranzo al Planet Hotel.
Siamo passati dalle stalle alle stelle, in meno di un giorno, son passata dal farmi il bagno al fiume uscendo dall’acqua che sapevo di pesce a farmi il bagno in una doccia e vasca Jacuzzi in una suite di questo hotel 4 stelle uscendo tutta profumata. Gli eccessi del continente africano. Gli eccessi e opposti dell’Ethiopia.
Purtroppo non si ha il tempo di fare nemmeno un giro a Makallè. I nostri driver ci accompagnano all’aeroporto da dove decolleremo per Addis Abeba e poi per il volo intercontinentale che ci riporterà in Italia.
Il mio viaggio è giunto al termine e confesso che, se avessi avuto ancora ferie, sarei rimasta e avrei proseguito almeno con la visita del Tigray.
Questo viaggio di una settimana è stato così intenso da sembrarmi molto più lungo. Ma sarei ripartita subito. Ho letto e visto che questo paese cela meraviglie uniche per cui spero di poterci tornare presto.
La Dancalia è stato uno degli itinerari più stupefacenti e belli mai fatti in vita mia, un luogo con una energia unica e fortissima che raramente ho percepito altrove nel mondo.
Ringrazio Ale per avermi accolta tra i suoi amici e avermi rimesso la pulce nell’orecchio su questa meta meravigliosa e dispersa e ringrazio i nuovi amici incontrati in questo splendido paese.
Gadda-ge Afar people!