martedì, dicembre 29, 2009

Dove la terra tocca il cielo…dall’altra parte del mondo

Quest'anno non ce la faccio ad andare in Asia, non riesco ad affrontare me stessa lì...ma non posso non andare verso l’alto, non posso non andare in un posto dove la terra tocca il cielo. Voliamo con Aerolinas Argentinas.
L’anno scorso Gabri mi raccontò di aver avuto un giorno e mezzo di delay dovuto a guasti tecnici di ndd con tanto di Santi dovuti scomodare giù dal cielo per farlo partire. Buenos Aires è lontana e io non amo partire da Roma perché Fiumicino non mi è mai piaciuto. La mattina del giorno prima della partenza “apprendo” che il volo delle 19 è stato cancellato. Non voglio dire il classico “lo sapevo”, diciamo che avevo avuto qualche dubbio, ma non mi ritengo per niente una persona sfortunata perché a Roma riusciamo a prendere il volo prima: quello delle 10 del mattino che era stato ritardato alle 16 del pomeriggio e che è poi partito dopo le 18.
13 ore di volo verso questa capitale del Sur do Mundo. Quando atterro, al mattino prima dell’alba, ci sono solo 6 gradi: l’aria è davvero fresca. L’aeroporto è semideserto ma si riesce a recuperare un voucher per la colazione: 2 brioches, succo, tea o caffé. Ottimo. Abbiamo un po’ di ore prima di reimbarcarci alla volta di Santa Cruz de la Sierra.
A poco più di 400 mt sul livello del mare, Santa Cruz non è niente di che. Una città latina piuttosto anonima, con una piazza carina dotata di chiesa coloniale e porticati. La sera ci sono molti accattoni e qualche ubriaco stramazzato al suolo che pseudodorme sul marciapiede. Passeggiando in piazza conosciamo Luigi e Mirna, una coppia lui italiano lei boliviana che abitano a una quarantina di kilometri da qui e che ci invitano a passare da loro il giorno dopo. Noi dobbiamo andare a Saimapata per prendere il bus notturno per Sucre facendo tappa a El Fuerte ed effettivamente loro sono sulla strada.
Il giorno dopo siamo al Ponte di Tarumà, così si chiama il luogo dove vivono Luigi e Mirna e dove hanno costruito un progetto ammirevole, "Il Ponte", una scuolina/centro per i bambini di questa remota zona della Bolivia. Un’alternativa per la loro vita. Casa Cominelli è un’opera d’arte, costruita da due cuochi tedeschi, dentro è arredata dai quadri e dalle opere d’arte di Luigi. Lui è un pittore e mi ha colpita tantissimo, ha negli occhi l’illuminazione dell’artista e ha un entusiasmo che lo fa sembrare un ragazzino senza contare la fantasia strabiliante che si vede in ogni cosa dove lui ha messo mano. Mirna ha uno sguardo dolcissimo e ci ha accolto come una mamma. Passiamo qualche ora piacevole con loro e gli promettiamo di rincontrarli alla fine del viaggio.
Il pullman ci porta a El Fuerte, sito incaico stranissimo. Un enorme blocco di granito in cui sono scolpite due linee parallele che sembrano due rotaie per l’infinito. Il paesaggio è verdissimo, colli interi ricoperti da vegetazione rigogliosa, qualche parete di roccia a picco ricoperta di agavi. Penso a Ernesto, a quando era da queste parti col mito della rivoluzione, il cambiamento in testa, la testardaggine, la forza di andare avanti contro tutto e tutti. Non vedrò La Higueira. Avrei voluto respirarne l’aria. Sulla strada alle porte di Saimapata c’è un cartellone con una grossa pianta della regione che indica La Ruta del Che e mi fermo un po’ a guardare cosa mi perderò.
A Saimapata mi accorgo per la prima volta che esistono delle piante che crescono sui fili della luce...è troppo divertente.
Il pullman notturno. Era da anni che non prendevo un pullman notturno non turistico. Nelle 13 ore di viaggio per lo più in sterrato, sono ripiombata indietro negli anni...in Perù mi sono fatta due mesi di bus pubblico, tra galline e pulcini nei sacchi iuta, gente che si passava l’asado nella carta di giornale, bambini invasi da crosticine che la notte dormivano nel corridoio. Beh...anche questo bus è più o meno così. Sono talmente stanca dal volo di un giorno e mezzo fa, che mi infilo i tappi nelle orecchie e riesco anche a dormire un po’.
La mattina alle prime luci dell’alba penso che questo viaggio mi ha provata parecchio...non ho più lo spirito di adattamento di un tempo e vedo che inizio a notare cose su cui una volta passavo sopra molto più facilmente.
Sucre, la città bianca. Il nostro hotel è davanti al mercato, ed è qui che mi faccio la prima passeggiata. Vedo le prime cholitas con le gonnellone arricciate con le balze, i golfini fatti a mano e le mantas gonfie sulle spalle. Dei piccoli arcobaleni che sgambettano veloci sulle stradine acciottolate. L’aria è di nuovo fresca, le montagne attorno sono brulle e i colori vanno dal beije al marrone intenso. In piazza c’è vita, e lo stendardo rosso “25 mayo aquì naciò la libertad” luccica al sole. Dalla terrazza sulla Recoleta si gode un bel panorama della città e la strada per arrivarci è una dolce passeggiata in salita dove si incontrano artesanias interessanti e anche una ghiotta cioccolateria (para ti).
Nelle 6 ore di pullman verso Potosì si inizia a salire.
Potosì è una città mineraria a circa 4100 metri sul livello del mare che è stata costruita dai coloni spagnoli solo per la ricchezza del monte alla sui base è sorta.
Il Cerro Rico col passare dei secoli ha sempre più assunto un duplice ruolo: fonte di ricchezza, sostentamento, lavoro e insieme monte della sofferenza e della morte. Infatti questa montagna fatta a cono rovesciato che svetta sul panorama di Potosì ha dato lavoro e pane a milioni di persone ma da quando sono nate le miniere fino al secolo scorso ha mietuto 8.000.000 di vittime. La montagna della morte.
Potosì è davvero bella. Stradine strettissime, balconi verandati in legno tipici coloniali, casine colorate e chiese coloniali i cui campanili sembrano appiccicati al cielo limpido di questa città. E poi il Cerro Rico, coloratissimo, brullo, perfetto sullo sfondo, come se fosse stato incollato per rendere ancora più bello il panorama. Potosì, bella e dura. Riesco a godere appieno del primo sorriso boliviano, la mattina, una sciura vicino all’Hostal San Marcos ha una piccola tienda dove frigge delle pagnottelle di pasta di patate ripiene di jamon, queso y huevos...che bontà e che bella lei...
Dopo aver visto la Casa de la Moneda, uno dei musei più belli del Sud America, a detta dei boliviani, pranzo all’Union Obrera, al secondo piano di un edificio di fianco alla Cattedrale nella piazza principale della città. Menù a prezzo fisso, più o meno un euro per una buona zuppa di verdure, delle frittelle di verdura, una cotoletta alla milanese con puré e un dessert. Le pareti ricoperte di vecchie foto di lavoratori, rivoluzioni e conquiste. Un altro mondo...
La mattina dopo sono alla base del Cerro Rico...mi fa un po’ impressione. Il mercado minero mi si mostra in tutta la sua essenzialità. Tiendas che vendono sacchi di coca, sigarette fatte a mano con il tabacco più forte che c’è a disposizione, ovviamente senza filtro, bottigliette di alcol a 95%, cosa non si fa per cercare di sopportare la fatica, gli stenti, il freddo o il caldo, il peso di una vita spezzata dal lavoro in miniera. Sì un quarto di una vita normale. Per questo io scrivo spezzata. A 12 anni si inizia a lavorare sul monte, all’esterno, a spaccare pietre e a portarle. Poi dopo i 16 si entra nel tunnel...e il tunnel lo è in senso reale e anche metaforico...a 30 anni sei già un vecchio, col 50% della capacità polmonare ridotta, dalle polveri, dagli agenti chimici, dall’asbestosi. Se tiri a 50 anni sei un uomo davvero resistente...se ce la fai. Comperiamo un bel po’ di sacchi di coca, bottiglie di succo di frutta, un po’ di “spirito”, della dinamite, un po’ di nitrato di ammonio e anche qualche metro di miccia. Sta povera gente guadagna 12 dollari a settimana. Per 12 ore al giorno di lavoro. Quando sei giù...nel tunnel...non esci più. Non esci per il pranzo o per la pausa caffè...non esistono queste cose. Non esiste un ascensore, non esiste un montacarichi che sia un montacarichi, non esistono le pompe di areazione. Esistono dei ragazzi, con un caschetto in testa con una lampada su, due paia di guanti bucati, le mascherine di carta nere nere e gli stivali da pioggia, che scendono giù al mattino nelle viscere del Cerro Rico attraverso una miriade di cunicoli angusti, bui, umidi, nebbiosi di polvere utilizzando corde e scale a cui mancano i pioli e che con le loro mani trainano carrelli da 2 tonnellate su rotaiette di legno spezzate. 3 ore e mezza, dentro il Cerro Rico con questi ragazzi, la giù in fondo al buio strisciando, sono bastate per togliermi ogni parola, per far fatica ad abbozzare loro un sorriso, sentendoli ansimanti per la mancanza d’aria, per la fatica, lo sforzo sovrumano per un lavoro disumano mentre a mano battono il martello sul chiodo nella roccia e poi vanno avanti col piccone. Se devi nascere per vivere così è meglio che al mondo tu non ci venga proprio. Quando ho rivisto la luce in fondo al cunicolo volevo correre all’impazzata per raggiungere il sole, avevo un magone e i lucciconi agli occhi ma non per la polvere. 25.000 minatori lavorano al Cerro Rico, 25.000 vite spezzate a un quarto...neanche a metà.
Che forte mal di testa, non riesco a godermi una cena a base di asado de Lama in un posticino carinissimo in una via di questa città. Che gran confusione che ho in testa. Mi dicono che mi ha preso male l’altitudine...ma no...non può essere siamo a 4.100...il mio è solo puro sgomento.
Il bus pubblico ci porta via...verso Tupiza...il far west boliviano, la città di Butch Cassidy e Sundance Kid.
La polvere domina sempre da queste parti. Inizio a vedere le prime formazioni rocciose da film western, proprio quelle rosse rosse e invece degli indiani a cavallo, sullo sterrato appaiono i primi Lama.
Tupiza è davvero da film, col mercato ai lati delle rotaie del treno, le donnine che ti vendono di tutto e i bambini che corrono in bici. Il tutto è incorniciato da bastioni di roccia rossi come il fuoco. L’aria è sempre freschissima, peccato per l’odore di gas di scarico. Il primo giorno qui vado a zonzo senza meta tra i banchi del mercato e tra la gente colorata, sto seduta un po’ sulla rotonda in mezzo alla strada principale a guardare il via vai, il movimento, il tutto.
Qui sul serio iniziano ad esserci panorami e luoghi che preannunciano la grandiosità di quelli che vedrò in seguito.
La mattina di buon ora si va in jeep verso le quebradas, letti di fiumi in secca costellati di cactus giganteschi e di formazioni rocciose dalle dubbie forme e canyon degni di questo nome. Un pranzo al sacco in riva a un fiume dove un tempo si trovavano pepite d’oro e poi...a cavallo. Una lunga passeggiata e anche cavalcata con tanto di salti di fossati (che brivido) che mi ha portata fino alla Puerta del Diablo...mi sono vista con John Wayne...e anche con Sergio Leone...sarà stato il sole che picchiava e la stanchezza. Il cavallo, alla fine al galoppo, le ombre dei pinnacoli arsi al sole, il terriccio sollevato dagli zoccoli...le folate di vento...
La sera al tramonto sono in alto. Il panorama in silenzio mi parla con i suoi colori accesi. Sono al Bryce Canyon o sono in Bolivia? Dove sono adesso? La mia mountain bike ha dei freni per modo di dire. Mi ci sento un po’ instabile mentre sto in piedi sui pedali e scendo sui venticinque kilometri di sterrato prendendo sempre più velocità...non c’è anima viva. Sento solo il rumore delle mie ruote che scorrono veloci sui sassi mentre il sole va giù tra il rosso del cielo e dei monti.
La mattina conosco Manuel e la sua jeep con l’adesivo del Che sui deflettori. I finestrini si abbassano solo se li aiuti con le mani, sono stanchi, e credo che ognuno di noi sarà il nostro riscaldamento, un po’ come il bue, l’asinello, le pecorelle dei pastori e...i lama. Raggiungiamo il primo passo a 4.500, il primo di molti, e pian piano ci si inerpica verso la Cordillera de Lipez. Abbiamo due cocinere, due splendide e paffute signore che ci accudiranno d’ora in poi sugli altipiani boliviani: Delmira e Bernardina. Nella prima sosta danno già prova della loro maestria allestendo un buffet di tutto rispetto sulla ribalta del bagagliaio delle jeep.
Siamo al Sillar de Lipez, ben oltre i 4.000, c’è un vento forte e l’aria è fredda. Attorno a noi non c’è niente, un pianoro tra qualche colle brullo e in lontananza un recinto di sassi dove presumo la notte trovino riparo i lama. La vegetazione è pressoché inesistente...qualche ciuffo di un’erba gialla che ha la forma di una fiamma...che cosa strana...
Il tragitto è tutto un susseguirsi di panorami montuosi e il silenzio del luogo è rotto dal sibilo del vento e dal nostro i-pod magicamente collegato all’autoradio della jeep che ci accompagna con una colonna sonora che spazia dagli Inti Illimani ai Molotov, per la gioia di Manuel che per tutto il viaggio ci dirà: “decame la musica de la lucha popular, decame la musica del Che”.
Nel pomeriggio si arriva al pueblo de San Pablo de Lipez. Le uniche persone che vedo sono un padre e un figlio, nell’unica cabina telefonica del paese, una bara di legno in piedi, che stanno cercando di fare una telefonata. Il pueblo è davvero desolato. Attorno alla piazzetta, la chiesina col piccolo campanile in mattoni, l’alcalderia e un mucchietto di casine fatte di adobes, attaccate l’una all’altra, coi tetti di paglia messi su come se fossero stati cuciti dalle vecchine nelle fredde sere intorno alla stufa per mantenersi calde. Alla fine della strada di nuovo il nulla...si vede la pista sterrata che si perde nella pampa dopo il guado del fiume e all’orizzonte i monti le cui cime si fondono col cielo in controluce...il sole pian piano sta andando a dormire.
Ci arrampichiamo ancora su e giù per le Ande fino al pueblo fantasma di San Antonio de Lipez. Qui fino agli anni novanta c’era un bel po’ di gente che ci viveva e ci lavorava per via della miniera. Poi finite le risorse estrattive se ne sono andati tutti e si sono portati via tutto. Il pueblo appare come un sito archeologico...le case hanno solo i muri perimetrali in mattoni, non ci son più ne i tetti, ne le porte...anche la chiesa ne è totalmente priva...è tutto abbandonato. Facendo un giretto mi imbatto nella prima viscaccha, un marsupiale, una sorta di incrocio tra una lepre e un microcanguro. Bellissima! Qui non c’è altro e mentre il sole sta tramontando risaliamo veloci sulla jeep alla volta di Quentana Chico.
Il viaggio è ancora lungo e Manuel è un po’ preoccupato. Non c’è anima viva, la strada è una pista sterrata spesso con un bel burrone da un lato, la jeep è quello che è e inoltre appena cala il sole la temperatura cala velocemente e drasticamente sotto zero e tutto ciò che ci circonda diventa ghiacciato.
Quando ci fermiamo al buio pesto su un crinale non si vede più niente. Accovacciata col vento gelido tra le gambe e sui glutei nudi, appena alzo il gli occhi vedo un cielo sconfinato e nero che brilla come se fosse ricoperto di diamanti. Una stellata indimenticabile.
L’ultimo guado è un rebus. Manuel va avanti e poi in retro un paio di volte. E' indeciso, il fiume è in parte ghiacciato e i lastroni non sono ancora tanto spessi da essere sicuri. Per fortuna ce la facciamo e, senza incidenti di percorso, arriviamo a Quentana Chico.
Quentana Chico è un gruppo di baracche col tetto in lamiera, le finestre con dei vetri che sembrano carta velina, le porticine che sembrano di cartone...Orione mi guarda dall’alto impietosito e sembra dirmi: “ma non ti ricordi più che qui è pieno inverno?” il freddo sale sempre più e mi entra nelle ossa. Giannino mi dice che nel refettorio siamo a -7. Non ci posso credere. Delmira accende una specie di lampada a gas che dovrebbe darci un po’ di calore. Ci facciamo stretti stretti attorno al tavolino, un braccio attaccato all’altro per scaldarci. Ceniamo giacca a vento addosso e la zuppa di verdura bollente è un toccasana momentaneo che mi fa sentire il caldo scendere nello stomaco circondato dalle altre mie viscere congelate.
Nella stanzetta, letto di pietra, 2 materassi uno sopra l’altro e una montagna di coperte, svolgo il mio sacco a pelo tra gli spasmi del freddo. Riesco a mettermi solo i pantaloni del pigiama, la parte sopra la tengo così e poi chiudo tutto a mummia. Ogni tanto la notte mi sveglio tremando.
La mattina la bottiglia d’acqua accanto al mio letto è un pezzo solido di ghiaccio che non si può neanche toccare...e adesso come cavolo faccio a lavarmi i denti? Sinceramente non mi ricordo a quanto siamo andati sotto zero durante la notte...devo averlo rimosso...ricordo solo che prima di salire sulla jeep prima dell’alba eravamo a -15 e, cosa ancor più pesante, è che la nostra jeep era a quella temperatura.
Alla partenza Manuel esige silenzio, altrimenti i vetri si appannano...purtroppo non serve a nulla, si appannano lo stesso e poi sono coperti da una lastra di ghiaccio. Stiamo a vetri aperti con l’aria gelida che ci punge la faccia e il corpo fino a quando non sorge il sole. Una tortura.
Ci dirigiamo verso il Parque Nacional Edoardo Avaroa, la nota zona delle lagune in quota. Il paesaggio è lunare, un quadro di dune color ocra pennellato dal marrone scuro dalle tracce lasciate dalle jeep e la pallida luce del sole che deve venire su. In lontananza ci appare la Laguna Hedionda con il suo sconfinato bianco e le dune tutt’attorno, un silenzio e una vista da togliere il fiato in barba al freddo e al vento. Ci fermiamo alla Laguna Colpa per far colazione. Finalmente qualcosa di caldo, un mate bollente, i biscottini. Mi metto schiena al muro di una casupola abbandonata sulla riva della laguna. Il muro ha già assorbito un po’ del calore del sole che gli batte contro da poco e spero che riesca a trasferire un po’ di caldo anche a me. La Laguna Colpa in controluce brilla. La sua crosta di ghiaccio e borace scintilla ai raggi del sole.
Stamattina dobbiamo attraversare tutto il parco per arrivare al confine col Chile per pranzo.
Attraversiamo il Salar de Chalviri. Il bello è che questi posti sono talmente fuori dal mondo, così sconfinati, che pare davvero di stare su un altro pianeta, in un mondo diverso, deserto, silenzioso, battuto da venti ghiacciati. E’ così strano che non riesco a trovare parole per descrivere questi luoghi che scorrono davanti ai miei occhi dal finestrino della jeep, man mano cambiando tonalità di colore come stessi guardando dei pantoni. Il Parco Avaroa è una tavolozza di un pittore, è un quadro surreale di un mondo parallelo. E io ci sono dentro.
Uno dei luoghi più belli che ho visto fin ora mi si apre davanti in un attimo: la laguna del salar de Chalviri, abbracciata dai monti fuma di vapore. Siamo alle Terme de Polques. Questo luogo è un miracolo della natura incorniciato tra le montagne.
Qui c’è un punto di ristoro dove chi passa può cucinarsi qualcosa e sedersi a un tavolo per mangiare al coperto e, al di là della pista, dove inizia la laguna, c’è un laghetto tondo che fuma di vapore circondato da sassi con una cascatella che fluisce pian piano in un torrentello caldo che scorre fino alla laguna.
E’ quasi metà mattina e il sole sta iniziando a scaldare un po’ questa terra impervia. Ci saranno tra i 5 e gli 8 gradi e non resisto alla tentazione di spogliarmi dei miei multi strati di vestiti per entrare a scaldarmi in acqua. Via la giacca a vento, via il berrettino di alpaca, il maglione di lana, il pile pesante, il micropile, il maglioncino di lana merinos, la maglia tecnica, i pantaloni da trekking, la calzamaglia, i pantacollant, i calzettoni, via il body di microfibra...ma quante cose avevo addosso? Entro in questo angolo di paradiso. L’acqua è a 45 gradi: è un brodo meraviglioso. C’è vapore dappertutto e adesso vedo il panorama attraverso questa coltre, questo filtro ovattato.
A un certo punto si sente uno scalpitio e un gruppo di vigogne selvatiche attraversa il ruscello e si mette a brucare non so cosa tra il vapore proprio davanti a me, mentre sono immersa nel caldo fino al collo. Io non ho più parole. Mi godo il silenzio, il calore, le acque rigeneranti e rinvigorenti delle terme de Polques per un’ora intera. Un’ora intera in questo nuovo paradiso sul tetto del mondo dall’altra parte del mondo.
Il calore che ho accumulato mi ha scaldata come una pila. Sono all’aria a pelle nuda che asciugo il mio corpo senza provare un minimo brivido. E’ spettacolare. Quando arriviamo in prossimità del deserto di Dalì ho ancora caldo e sono ancora senza giacca a vento.
Spunta il volcan Licancabur, stiamo arrivando al confine. Sfrecciamo sullo sterrato lasciandoci l’insegna per la Laguna Verde alle spalle, la vedremo tra qualche giorno, e iniziamo a costeggiare i bordi della Laguna Blanca candida come un velo da sposa. Le montagne qui sono davvero spettacolari. Non so più da che parte girarmi a guardare, sono ebbra di colori e paesaggi.
La frontiera è molto spartana. Una baracca intonacata di bianco col tetto in lamiera, la bandiera della Bolivia e un’asta che pende sulla pista sterrata segna la linea di confine tra Bolivia e Chile. Sostiamo in un casolare dove le nostre cocinere ci fanno un pranzetto delizioso. Quinoa e spezzatino di carne a volontà, verdure cotte e frutta. Ho una fame indescrivibile.
Mi incammino un po' più in là, verso la laguna, metto su un muretto al sole l’asciugamano usato alle terme e mi siedo su un sasso a guardare la vastità che mi circonda, il Licancabur, la laguna Blanca, il confine, la Bolivia, tutto mi sta emozionando da morire. Intanto leggo in lontananza un cartello stradale verde su cui sta scritto Bienvenidos in Chile.
Il pulmino confortevole della Mayuru ci carica alla volta di San Pedro de Atacama. Finalmente arriverò in questo posto che per me è stato per anni un mito letto solo nei libri di Sepulveda. Ho sempre desiderato arrivare in questo deserto in quota e respirarne l’aria.
Lasciata la frontiera Boliviana e la jeep di Manuel, giriamo attorno al Licancabur e la strada magicamente diventa asfaltata e panoramica. Già, un panorama inaspettato, perché dai 4.500 del confine arriverò ai circa 2.500 di San Pedro in 45 kilometri. Il che vuol dire più o meno 2.000 metri di dislivello fatti con una strada a picco che scende in picchiata fino al deserto.
Subito dietro una curva infatti vediamo la carretera sparire in basso e sotto appare la piana dell’Atacama. Sembra di stare in aereo e di guardare giù. Che emozione.
Nel primo pomeriggio la temperatura a San Pedro è molto gradevole. Fa addirittura caldino e io stendo il bucato al sole respirando a polmoni aperti l’aria cilena. L’hostal Chiloé è un vero e proprio ostello, con camere freddissime col bagno in comune e l’acqua calda a fortuna. Tutto sommato è carino.
Nel pomeriggio siamo al Salar de Atacama, sconfinato paesaggio lunare che mi lascia in silenzio un po’ persa a scrutare tutti i punti di fuga all’orizzonte. Faccio una passeggiata in un canyon ascoltando il crepitio delle rocce. Da non credere! Fanno un rumore davvero inquietante e hanno delle forme talmente bizzarre che sembrano scolpite da un artista.
Le dune della valle della Luna, con la sabbia finissima, finiscono a incunearsi negli stretti passaggi dei canyon. Un labirinto in cui mi perdo. Un silenzio bellissimo. Io e il vento a passeggio nel canyon, la sabbia sotto i piedi...
Lascio questi silenzi per andare verso altri. Nella valle della morte ci sono tre formazioni rocciose chiamate “le tre Marie” che si stagliano all’orizzonte perfette tra il niente. Per terra c’è sale e in fondo si vedono le montagne. E’ davvero surreale.
Sta arrivando l’ora del tramonto e un’altra meraviglia mi aspetta. Un mirador a strapiombo nella valle della Luna. La temperatura cala vertiginosamente man mano che il sole si abbassa dietro le Ande a ovest. Sono nel Deserto di Atacama, un altipiano gioiello tra le Ande. Ai miei piedi in lontananza vedo la catena al confine con la Bolivia, il Licancabur illuminato di arancio, poi di rosso che si tramuta in viola e in fine rosa come un confetto con la luna che lo ammira dall’alto. Con tutti questi colori mi sembra di stare su Marte e non c’è anima viva. Uno spettacolo che mi godo con un bicchiere di rum al mango. Un aperitivo insolito preparato dai driver con maestria. Poi il vento e il buio mi avvolgono e mi accompagnano di nuovo a San Pedro, verso una gelida notte.
La mattina è un trauma. Sveglia alle 3 e mezza e di nuovo sotto zero. Il mio materasso è ancora ghiacciato nonostante il mio corpo abbia cercato in tutti i modi di emettere calore...che freddo, che freddo impossibile. In questi posti non esistono stufe e dovermi vestire a queste temperature è una tortura. Sta mattina dovrò vestirmi più delle altre volte perché il posto dove sono diretta e uno dei più ghiacciati di tutto il viaggio.
A 4.300 metri di altitudine i Gayser del Tatio mi portano in un paesaggio dantesco, infernale e surreale. Il sole non è ancora sorto e tra i fumi, le nebbie, i soffioni e gli zampilli bollenti che escono dai crateri e dai gayser c’è un bagliore diffuso che mi fa sentire stranissima. Mille spilli mi pungono il viso, le ciglia ghiacciate, i piedi che iniziano a perdere sensibilità, mentre cammino mi sembra di essere a due centimetri da terra. 20 gradi sotto zero all’inferno.
Le sagome nere di chi, con me, si perde tra i vapori...guardarle è surreale. Il terreno e durissimo, coperto di ghiaccio e questo si scioglie solo in prossimità dei crateri che emettono vapori e zampilli d’acqua bollente a 80 gradi. Cammino cercando un po’ di calore da ogni gayser stando però attenta a non avvicinarmi troppo. Poi ad un tratto il sole esce da dietro un monte e tutto il terreno brilla e luccica come uno specchio.
I nostri driver hanno messo i termos dentro i gayser e ora posso bere latte e cioccolato bollente. Una manna. E’ ancora così freddo che le fette di prosciutto che abbiamo per farci eventuali panini sono ricoperte da cristalli di ghiaccio. Da congestione. Io riesco ad addentare solo 2 biscottini.
Pian piano mi incammino verso le vasche termali. Sono ancora indecisa. Non so se farmi un bagno o no. Fa davvero troppo freddo. Pucio la mano per sentire se le acque son calde a sufficienza ma non riesco a rendermi conto della temperatura. Mi fido di Gabriel che mi dice che non sono bollenti ma son piacevoli e soprattutto mi che faranno bene. Mi spoglio, di nuovo al gelo...entro...cacchio non sono calde come mi aspettavo! O forse fuori è troppo freddo. C’è anche vento. Ogni tanto una corrente d’acqua bollente si mescola alla fredda e mi attraversa le membra dandomi un brivido caldo. Non riesco a stare qui dentro più di un quarto d’ora, non ce la faccio perché fa davvero freddo, tra l’altro c’è vento. Esco e mi vesto abbastanza in fretta. Intanto mi guardo attorno e vedo che col sole non si apprezza più il paesaggio di prima. I vapori sono andati via via scemando e la nebbia è calata. Ora i Gayser del Tatio non hanno più il phatos che avevano all’alba.
Lasciamo le alte quote per giungere al pueblo di Chiu Chiu.
Sono un po’ stanchina e ho un gran sonno. Chiu Chiu si allarga attorno a una semplice piazzetta su cui si affaccia una splendida chiesa coloniale bianchissima. Mi riposo sdraiata su una panchina con la testa all’ombra sotto le fresche frasche di un albero e il corpo al sole. Assomiglio sempre di più a una pila...
Dovremmo pranzare a Calama, ma questo posto mi fa talmente una brutta impressione che non mangio neanche. Me ne sto su una panchina nel parchetto davanti alla cattedrale non vedendo l’ora di lasciare questa triste città, fatta da centri commerciali uno più trash dell’altro e agglomerati urbani, costruiti dalla Codelco per i suoi minatori, dopo che fu smantellato il villaggio alla base della miniera di rame a cielo aperto che è poi divenuta la più grande del mondo: Chuquicamata.
Di nuovo polvere e caschetto rosso in testa. Questo cratere artificiale è profondo più di un kilometro, largo due e lungo cinque, con tutta una strada a tornanti che a spirale raggiunge il suo fondo.
Camion giapponesi trasportano 20 tonnellate di pietre da cui si estrae il prezioso rame e percorrono questa strada su e giù, tutti in fila, 365 giorni all’anno, giorno e notte. Non ho mai visto dei camion così grossi in vita mia. Sono dei giganti e mi fanno un po’ paura. La maggior parte della produzione mondiale di rame viene da questa miniera: la COrporación Nacional DEL CObre de Chile ed è l’orgoglio della nazione cilena.
San Pedro di sera neanche la vedo, ho un sonno tremendo e mi infilo nel mio ghiaccioletto.
La mattina ci si inerpica di nuovo sulla panoramica fino al valico Hito Cajon al confine con la Bolivia dove mi concedo un’altra passeggiata. C’è un pullman abbandonato in mezzo a questa landa deserta che sembra davvero messo lì a posta per rendere più suggestivo il paesaggio...neanche ne avesse bisogno...
Manuel ci porta via con la sua jeep verso la Laguna Verde.
Sì sta alzando un gran vento e a piedi risalgo il crinale fino in cima per vedere la laguna dall’alto in tutta la sua estensione. La Laguna Blanca alimenta con un piccolo torrentello la Laguna Verde, le da vita e corpo e vedere questi due laghi in quota che vivono l’uno grazie all’altro è bellissimo. All’orizzonte il rosso delle montagne risalta in modo strepitoso. Il vento che si era un po’ placato si alza di nuovo e davvero l’aria gelida di questo mondo dall’altra parte del mondo sembra proprio non volerci più lasciare. Lentamente, mano a mano che il sole la riscalda e ne scioglie il ghiaccio in superficie, la laguna cambia colore e il marrone che aveva all’inizio, specchio del colore delle montagne, lascia lo spazio al verde...prima appaiono timidamente delle deboli striature poi il colore di smeraldo si impossessa della laguna e la rende splendente. E’ così bella che non sembra vera. Sembra che qualche maldestro pittore le abbia buttato dentro un secchio di vernice, invece sono i sedimenti di rame e l'alta concentrazione di piombo, zolfo ed arsenico depositati sul fondo che la rendono così.
Apro le braccia al vento...è talmente forte che sbilanciandomi in avanti mi tiene in piedi.
Puntiamo verso il Deserto di Dalì. La pista si vede appena e si perde tra la polvere e il vento dritta dritta fino all’orizzonte tra i monti. Incontriamo qualche gruppo di vigogne che pascolano indisturbate.
Le dune di Dalì sono costellate di formazioni rocciose a pinnacoli che sembrano piantate in mezzo alla sabbia come grandi picchetti. Passeggiare nel vento affondando nella sabbia a queste altitudini è un’esperienza strana. Qui è tutto così sconfinato, immenso.
Risalgo in jeep e sosto di nuovo alle Terme de Polques. Mentre Delmira e Bernardina vanno alle casette punto di ristoro e si mettono a cucinare io ho circa un’ora di tempo per infilarmi nell’acqua calda delle terme invece di fare la bella passeggiata in salita sul colle dietro la laguna. Non c’è nessuno e io mi sento in paradiso galleggiando al caldo. Penso davvero che le alte lande siano il mio posto in questo mondo. Respiro a pieni polmoni l’aria rarefatta di quassù.
Quando riparto ho di nuovo l’effetto pila. L’acqua mi ha talmente scaldata che sto bene senza giacca a vento per almeno 2 ore. E’ una meraviglia.
La jeep di Manuel ci sta guidando verso il punto di sosta più alto di tutto il nostro viaggio. I gayser de Sol de Manana si trovano a una quota di circa 4.800 metri. Siamo dentro a un cratere in mezzo alle montagne e il percorso è pieno di cartelli che indicano “peligro” intimando a non avvicinarsi troppo ai buchi e ai piccoli crateri che si aprono sotto ai nostri piedi.
Questi sono piccole e grandi vasche per lo più circolari ripiene di fanghi roventi in ebollizione e di diversi colori: grigi, neri, rosa, rossi, gialli, più liquidi e più densi. Qua e là c’è qualche soffione e l’odore di zolfo ristagna ovunque. Osservare il formarsi e l’esplodere delle bolle a bordo cratere è un po’ inquietante e il caldo che esce dal sottosuolo si mescola all’aria fredda dando una continua sensazione di brivido a fior di pelle. Manuel ci dice di stare attenti perché continuamente se ne aprono di nuovi e se ne chiudono di vecchi. Il suolo infatti è dissestato e sotto le mie scarpe lo percepisco morbido, soffice, magmatico, insomma decisamente instabile. Questa passeggiata è un bel labirinto ed è bellissima.
Lasciamo quest’altro paesaggio dantesco per la laguna Colorada.
Dicono sia la 7° meraviglia naturale del mondo, questo lago salato situato a circa 4.300 metri è profondo appena 35 centimetri e ha una colorazione che va dal rubino al rosa striata dal bianco del borace che emerge tra le acque. I colori così accesi sono dovuti ai sedimenti e ai pigmenti delle alghe di cui si cibano le colonie di fenicotteri che abitano questa zona. Arrivo lì sul far del tramonto e mi incammino giù nel sentiero fino al bordo laguna. I fenicotteri zampettano tranquilli e sono perfettamente intonati col rosa dell’acqua. Sono molto diffidenti e si tengono a distanza. Ogni tanto un gruppetto di loro si alza in volo e fluttua nell’aria come se stesse facendo un balletto. Sono estasiata da questo posto mentre l’oscurità mi avvolge e torno sui miei passi pian piano.
Il rifugio dove alloggio è a 10 minuti di jeep dalla laguna ed è un’altra ghiacciaia. Manuel si affretta a coprire il motore con delle coperte e poi ripara la jeep con un telone molto spesso. Si alza il vento e al buio la stellata mi toglie il fiato. L’ostello è in muratura e ha il solito tetto di lamiera. All’ingresso c’è una bella sorpresa. Una scatola di latta con un tubo ficcato sopra alla bene meglio: una pseudostufa! Inoltre in fondo all’ingresso c’è una specie di forno dove le cocinere hanno già messo a cuocere il pollo con le patate. Sto forno pare essere dei primi ‘900. E’ un pezzo d’antiquariato. Abbiamo solo una piccola cesta con del combustibile fossile da bruciare nella stufa che ci basterà per stemperare un po’ la zona durante la cena. Le porte si aprono in continuazione per il vento e ci mettiamo delle sedie davanti e dei sassi per bloccarle. Intanto Giannino piazza il suo termometro sul davanzale e dopo un po’ i -7 gradi che segna non ci rassicurano per niente. Sarà una notte freddissima. Oggi però è la giornata della "Fiesta de la Republica Boliviana" e bisogna festeggiare. La tavola imbandita è davvero bella e nostri boliviani intonano "Viva mi Patria Bolivia" con i bicchieri pieni di tinto. Festeggiamo e brindiamo fino a che la stufa si spegne…poco dopo anche la corrente elettrica ci abbandona e nel buio totale mi infilo vestita nel mio sacco a pelo. Sopra ci metto anche i due piumini in dotazione sul giaciglio di pietra e ci aggiungo anche la mia giacca a vento. Mi calo il berrettino di alpaca giù fino agli occhi e finalmente dormo in questo rifugio gelato della laguna Colorada.
La mattina la mia solita bottiglia d’acqua è di nuovo un mattone di ghiaccio…e la temperatura della notte, scesa più o meno a una ventina di gradi sotto lo zero, ha rischiato sul serio di far fuori le jeep. Sono provata dal freddo e mi ci vogliono tre tazze di mate bollente per iniziare a sentire un po’ di tepore. Delmira e Bernardina ci hanno preparato le crepes e le frittelle. Sono proprio due mamite e a guardarle mi si scalda il cuore. Intanto il primo sole inizia a sgelare pian piano i finestrini delle jeep e io non vedo l’ora di salire alla volta del deserto di Siloli.
La laguna Colorada al mattino brilla che è una meraviglia. I fenicotteri stanno vicini vicini in piccoli gruppi e la luce diffusa del primo sole illumina tutto con colori accesi. Le piste ricamano il deserto di Siloli con linee sottili che spariscono dietro le dune per apparire più in là. All’orizzonte la Montagna dei Sette Colori si fa sempre più vicina e le formazioni rocciose che si vedono sono molto insolite e originali.
Finalmente l’Arbol de Piedra. L’immagine di questa roccia a forma di albero che si erge dal deserto e si staglia sulla montagna dei Sette Colori è spettacolare. Ocra, arancio, rosso di sabbia e pietra sul cielo blu. Tutto attorno altre forme più o meno grandi e più o meno colorate spuntano dalla sabbia come architetture naturali. Non vorrei andare via da questo meraviglioso niente. E’ splendido.
Sulla strada incontriamo un piccolo gruppo di vigogne che pascolano nel deserto poi ci fermiamo a bordo pista. Da una piccola altura spunta una volpe. Scende giù un po’ velocemente e un po’ quatta quatta, guardinga. Alza e abbassa il collo e la testa per sondarci. La coda è bassa. Si avvicina. Non ci posso credere. Gian ha in mano una frittella della colazione e la allunga verso la volpe. Lei viene avanti e poi indietreggia. Vorrebbe ma non può...come fare a fidarsi degli uomini? Lanciata la frittella, lei se la addenta, la porta un po’ più in là, scava una buca e la sotterra. Poi ritorna, sta volta vicinissima. Ci guarda. La guardo dal finestrino mentre la jeep si allontana e lei resta lì a guardarci andar via. Il Parque Nacional Eduardo Avaroa è davvero una delle meraviglie del mondo. Le bellezze che racchiude e raccoglie al suo interno sono incredibili.
La visita a tappe in sequenza delle 5 lagune inizia con la Ramaditas dove l’occhio esperto può riconoscere le efflorescenze di halite, che è un minerale che si è formato dall’evaporazione di acqua salata che forma una crosta compatta sulla laguna. Di seguito sosto alla laguna Honda. La montagna che sta al suo orizzonte ha sopra la sua cima una nuvola, la prima nuvola che vedo in Bolivia. La laguna Chiarkota è piena di depositi di borace e da lontano verso la sponda opposta, si vedono alcuni fenicotteri. La tappa più lunga sarà per pranzo alla Laguna Hedionda. Questa è una sorpresa. E’ totalmente invasa dai fenicotteri. La luce del sole poi la fa brillare argentea tanto che sembra sul serio ricoperta di filigrana. Lascio perdere i morsi della fame e scendo verso l’acqua per vederla da vicino. Resto davvero attonita. I fenicotteri non si interessano a me e beccheggiano le alghe indisturbati a bordo laguna. Sono talmente intenti a cibarsi che non si curano della presenza umana. Sono vicinissimi tanto che riesco a scattare dei primi piani e delle foto con la loro immagine che si specchia perfettamente sull’argento dell’acqua. Sono tantissimi! Non avevo mai visto una cosa simile in vita mia. Resto così incantata che quasi non sento il richiamo delle cocinere per la comida. Anche qui a metà pasto spuntano due volpi che con la stessa tattica di quella incontrata al mattino si assicurano un bel po’ di bocconi di cibo.
Ci si avvia verso la laguna Canapa, ultimo lago salato di questa giornata, anche questo con qualche fenicottero che si scorge in lontananza.
I paesaggi che mi trovo di fronte sono sempre più vasti e spettacolari. Ci fermiamo in un mirador in prossimità della piana sotto il Volcan Ollague che fuma in lontananza come un camino. Il terreno è evidentemente lavico e le rocce hanno un colore molto caldo.
Dopo un po’ si entra nel salar de Chiguana ed è davvero favoloso vedere questa distesa piattissima circondata all’orizzonte dalle Ande. Incontro solo un ciclista solitario che lo sta attraversando in bici da solo, poi il nulla più totale, il silenzio che sembra parlarmi. Il cielo blu ha un bel po’ di nuvole spumose e i colori sono così intensi da far invidia a un tramonto. Questo salar è attraversato a metà da una ferrovia le cui rotaie iniziano e finiscono all’orizzonte. Sembra davvero che siano state posate per collegare i due orizzonti opposti. Poso l’orecchio su una di esse e sento che vibra. Sta arrivando un treno, ma ancora non riesco a vederlo. Pian piano appare un puntino che velocemente diventa più grande assumendo la sagoma di una locomotiva. Passa velocissimo e poi sparisce all’orizzonte opposto lasciandosi dietro di se una nuvola di polvere. La jeep di Manuel attraversa le rotaie e proseguo il viaggio alla volta di San Juan dove mi ritrovo in mezzo a una festa di paese. Oggi è la giornata delle Forze Armate e i campesinos si ritrovano nella piazza del pueblo a festeggiare. C’è la banda che suona musica tradizionale e tutti ballano in fila, uomini di fronte alle donne, delle danze tipiche della regione.
Quando arrivo all’Hotel Marith ad Atullcha il sole è già tramontato. Questo hotel è fatto totalmente di sale. E’ costruito con pietroni quadrati di sale, il pavimento è di sale, i tavoli e le sedie sono di sale e anche i letti. Non ci posso credere ma “assaggio” le pareti della mia camera e sono salate davvero. E’ un posto grazioso, con le tendine e le tovaglie colorate, inoltre il bagno finalmente ha la doccia con l’acqua calda. Non mi sembra vero riuscire a sciacquare via parte della polvere che ho addosso con dell’acqua bollente. La cosa che mi fa un po’ sorridere è che per farti la doccia devi comprarti un bigliettino al costo misero di 5 boliviani. Ma nessuno però starà a controllare la cosa. Questa è di sicuro una delle docce migliori di tutto il viaggio. La cena è buona e abbondante, una calda sopa de verdura, la immancabile quinoa e asado. Un buon mate de coca lo accompagno a una chiacchierata finché non ci tolgono la corrente elettrica, poi tutti a dormire.
La mattina siamo alla Cueva del Diablo. Entro nelle Grutas Galaxias e mi sembra di stare in grotte sottomarine ed è evidente che si tratti di formazioni erose dall’acqua. Sono meravigliose. In questo sito c’è un cementerio de Chullpas dentro una caverna e nelle tombe ci sono mummie in posizione fetale.
Dopo aver raggiunto la sommità del colle e aver notato cactus pietrificati e coralli che stanno qui da secoli si riparte con la jeep. Il sole è alto e per terra il deserto di sale inizia pian piano a prendere forma. Inizialmente non si nota molto e sembra terroso con le classiche crepature del suolo secco, poi pian piano si fa sempre più bianco e uniforme fino ad essere una distesa immensa di esagoni di sale. All’orizzonte le piccole colline che si ergono sul salar sembrano sospese come un miraggio, isole galleggianti dell’aria. Il salar de Uyuni è il luogo più bello e particolare che ho visto in questo viaggio. E’ uno spettacolo della natura dove i cristalli di sale creano questo immenso pavimento bianco che si estende a 360° attorno a me facendomi perdere ogni punto di riferimento.
Mi fermo a circa due chilometri dall’Isla Incahuasi, scendo dalla jeep e proseguo a piedi nel salar battuto dal vento. A metà strada mi sdraio per terra per godermi il contatto con questo luogo. Mi ci rotolo un po’ come farebbe un bambino che gioca in spiaggia in riva al mare. Poi proseguo verso la Isla.
Incahuasi è ricoperta da enormi cactus. Non ho mai visto uno spettacolo simile in vita mia. La passeggiata fino in cima alla collina è bellissima. Ci sono degli scorci del salar attraverso buchi nella roccia che sembrano dei quadri. Arrivata nel punto più alto c’è un vento che mi porta via. Sono circondata da una distesa infinita bianca, attraversata solo impercettibilmente dalle due linee parallele della pista percorsa dalle jeep.
Pranzo alla base dell’isola con una milanesa de pollo e l’immancabile quinoa. Poi mi incammino di nuovo nel Salar per fare alcune foto. Questo deserto è talmente vasto e bello che ti senti un puntino inutile in mezzo al sale.
Ci spostiamo alle falde del Volcan Tunupa nel pueblo de Coquesa. Qui risaliamo a piedi le pendici della montagna verso il cratere del vulcano. Il vento è insopportabile. A metà strada ci fermiamo in una grotta dove ci sono delle Chullpas con mummie in posizione fetale ben conservate. Quando arriviamo al mirador ci dobbiamo riparare dietro dei muri di protezione. Le raffiche di aria gelida sono davvero troppo pesanti. Il salar dall’alto sembra un mare costellato da isole all’orizzonte e pian piano si tinge di rosa e viola mentre il sole cala dietro le Ande.
L’Hostal Tunupa è comico. Il tetto è rigorosamente in lamiera, il soffitto è protetto da un telo che ondeggia al vento sbuffando polvere e terra e le pareti sono decorate con chiassosi murales che rappresentano la fauna locale. Non tutte le camere hanno il soffitto in cartongesso, alcune hanno solo il telo e ovviamente l’hostal è sprovvisto di stufa. Quindi altra cena al freddo e al gelo in giacca a vento e berrettone e altra notte ghiacciata. La mattina, come scrisse il nostro mentore, si punta a ovest verso il Pueblo de Llica. Qui si recupera un po’ di benzina, e ci si dirige verso il Salar de Coipasa.
La sosta pranzo in mezzo al Salar è uno spettacolo. Mangiamo per terra accovacciati sul sale in mezzo al niente e poi ci diamo alle foto più bizzarre. Io che sembro in piedi su una bottiglia di CocaCola, piuttosto che io, un metro e cinquanta di femmina, che sembro letteralmente mangiarmi due cari amici che in realtà sono ben più grandi di me, ma posti in lontananza sembrano piccini in piedi sulla mia mano. E’ divertente davvero.
Riprendiamo la strada verso la frontiera cilena, verso Pisiga, lasciandoci alle spalle la zona dei Salar, uno dei luoghi più magnificenti che io abbia mai visto in vita mia e che avrò sempre nel cuore.
Man mano che ci si avvicina al confine, il Salar è sempre più invaso dall’acqua e sembra di più un mare che terra ferma. La jeep è coperta di sale e i finestrini sono totalmente incrostati. Ogni tanto si vede qualche cumulo di sale, nella zona infatti si fanno molte estrazioni e il sale è una grossa risorsa economica per il paese. Vedendo le saline e ripensando soprattutto a Uyuni mi rendo conto di quanto sia delicato l’equilibrio di queste zone naturali e di come siano splendide e per ora tutto sommato incontaminate. Ma per quanto ancora? Il salar de Uyuni ha nel sottosuolo una delle più grandi riserve al mondo di Litio. Per quanto ancora resisterà alle esigenze della tecnologia che ha gran fame di questo materiale?
Finalmente appare Pisiga. Un vero e proprio posto di frontiera. La parte boliviana è un cumulo di baracche mal disposte con i tetti di lamiera. La dove finisce lo sterrato boliviano inizia la strada asfaltata cilena e in fondo si vede il casermone di cemento della dogana. Il tutto è separato dalla solita sbarra di ferro bianca e rossa. E’ proprio surreale. Già da qui si vede il confine tra un paese in via di sviluppo povero e uno in via di sviluppo già abbastanza ricco.
Colchane, la faccia cilena di Pisiga, non è un granché anche se ha la strada asfaltata. Fa freddo lo stesso.
L’hostal Camino del Inca dove dormiamo è un’altra topaia ghiacciata e l’acqua calda è ancora un sogno.
Al mattino, sempre sul presto, ci lasciamo alle spalle la frontiera e ci inoltriamo nella zona dei parchi del nord del Cile e facciamo colazione a un mirador nel parco nazionale Isluga. Dall’alto vediamo pascoli di alpaca e lama brucare tranquilli nella pampa in cui serpeggiano ruscelli qua e là ricoperti di ghiaccio. Vediamo il Ganzo Andino e altri uccelli autoctoni.
Gli alpaca fanno delle facce comiche, col musetto fermo seguono i nostri spostamenti solo con gli occhi di sottecchi e sembrano davvero dei cartoni animati. Li possiamo osservare bene in prossimità delle terme di Enquelga. Qui non facciamo il bagno perché l’acqua, anche se fuma, è troppo fredda per potersi bagnare e ci limitiamo a una passeggiata e all’osservazione degli animali.
Proseguendo sempre verso l’alto passiamo la Laguna Aravilla bella e maestosa con i suoi fenicotteri rosa che si vedono in lontananza. I suoi profili per un attimo mi riportano alla Bolivia e penso a quanto i confini geografici alla fine siano solo dei tratti di matita su una carta che in realtà non vogliono dire nulla...la natura non rispetta nessun confine.
Quando arrivo alle terme di Polloquere sono in un altro paradiso. Un lago, un cratere vulcanico di acqua e fango. Dietro, i profili delle Ande color crema. Il fumo si alza dall’acqua e l’odore di zolfo aleggia nell’aria rarefatta in quota. C’è un lieve venticello e Gabriel mi mette in guardia, nel caso volessi entrare nel lago, di non starci di più di un quarto d’ora. La temperatura alla fonte è di 80° e va via via scemando fino ai 45° della riva. Queste terme hanno effetti troppo forti per una permanenza in acqua più lunga...dice che provocano svenimenti e sbalzi pressorei. Siamo in alto.
Mi spoglio dei miei soliti multistrati di vestiti e li adagio a terra uno sopra l’altro creando la mia piccola montagna. Resto in costumino, calzettoni e scarponi da trekking per qualche minuto, poi levo scarpe e calzini e metto il primo piede in acqua...quasi mi scotto, entro o esco? L’acqua è bollente! Affondo la gamba in acqua e sembro non toccare il fondo perché sprofondo nel fango fino al polpaccio. Ho una prima sensazione di schifo assoluto...mi sento come immersa nelle sabbie mobili. Cammino sprofondando in questa terra molliccia cercando di allontanarmi dalla riva perché, man mano che mi sposto verso il centro, il fondo diventa sempre più solido e le mie gambe riemergono dal fango. Ora attorno a me c’è solo acqua, un’acqua bollente, rigenerante, bruna. Prendo tra le mani il fango del fondo e me lo spalmo addosso, sulle spalle mentre il venticello gelido andino sul mio viso mi tiene sveglia. Nuotare qui dentro è meraviglioso, mi sento leggera, fluttuo sulle acque.
Quando esco ho caldissimo, nonostante la temperatura esterna sia di circa 4 gradi. Mi asciugo e mi vesto con calma. Queste acque termali mi hanno messo una spossatezza enorme. Aveva ragione Gabriel. Mi sento caldissima e vorrei dormire.
Si pranza in rifugio, un piatto di improbabile pasta che non mi godo per niente e poi, dopo aver attraversato il salar de Surire si passa per la Reserva Nacional las Vicunas dove finalmente ci appare il cono del Parinacota, spettacolare vulcano con un candido cappuccio di neve che sembra disegnato tanto è perfetto.
Alla sera siamo a Putre, la cittadina è piccina ma graziosa e l’hostal dove alloggiamo è sicuramente il più bello di tutto il viaggio. Una serie di piccoli cottage attorno alla struttura principale che ospita una sala ristoro e una cucina dove si può fare tutto ciò che si desidera. C’è il frigorifero pieno, poi tisane e tutto ciò che si vuole. Finalmente bagno privato con acqua rovente e stanza con parquet, stufa bella calda e piumini d’oca che sanno di bucato sui letti. Una favola ( http://www.tripadvisor.it/Hotel_Review-g1005748-d1435574-Reviews-Chakana_Mountain_Lodge-Putre.html ). I gestori sono una coppietta tenerissima e sono molto gentili. Ti fanno sentire a casa. Questo posto è stato una manna dal cielo dopo giorni e giorni di gelo e freddo indicibile.
La mattina ci si muove verso il Parque Nacional Lauca e vediamo Putre dall’alto come un piccolo presepe. Nel parco, che si trova su un altipiano, si può fare una bella camminata in piano tra le bofedales, gli acquitrini gelati e le paludi in quota. Non mancano le viscacchas che saltellano e corrono vispe in questi pianori e le immancabili fonti termali.
Si fa sosta nel pueblo di Parinacota. Qui c’è una chiesina coloniale bianchissima che è monumento nazionale dal 1979. Al suo interno è totalmente ricoperta di affreschi fatti dai gesuiti e dagli indigeni convertiti che raffigurano scene sacre miste a scene di vita quotidiana dell’epoca coloniale. Sono splendidi, minuziosi, originali e mi perdo a guardarli. Infondo alla navata della chiesa, sulla sinistra c’è una cosa stranissima: sotto un quadro della Madre c’è un tavolino che ha i piedini incatenati al muro. La leggenda della “mesa de Parinacota” narra che il tavolino annunciasse la morte andandosene camminando nel pueblito e apparendo proprio davanti alla porta dove qualcuno di lì a poco sarebbe dipartito. Fu così che si decise di legare la mesa con delle catene al muro cosicché non andasse più in giro a seminar morti.
Di lì a poco siamo alla Laguna Cotacotani: è splendida e si perde all’orizzonte in una miriade di laghetti e insenature le cui acque hanno un colore blu intensissimo. E’ circondata dalle montagne ed è sicuramente la laguna cilena più panoramica che ho visto. Prendiamo la strada per Chungara che è dominata dal cono del volcan Parinacota che si specchia nelle acque dell’omonimo lago. Un quadro di una bellezza estrema.
Chungara non è altro che un posto di frontiera. Qui, dopo le solite formalità, mi aspetta il bus pubblico che in quattro/sei ore mi porterà nella capitale boliviana.
Arrivo a La Paz che ormai è già buio. Da El Alto vedo il craterone su cui sorge la città ed è emozionante vederla tutta illuminata dall’alto.
L’hotel Sagarnaga è in centro, a due passi dalla Iglesia de San Francisco e dalle calles dei mercati. Le stanze sono riscaldate e c’è l’acqua calda. Una pacchia.
La sera ceniamo in un ristorante coloniale. Una zuppa con quinoa buonissima e una bisteccona di lama di cui ricordo ancora il sapore e la tenerezza.
La mattina sveglia presto perché si deve andare a Tiwanaco, il sito archeologico preincaico più importante e suggestivo della Bolivia risalente circa al 200 a.C.. Qui qualche anno fa il presidente Evo Morales fece la cerimonia dell’insediamento al governo secondo il rito antico dei nativi assicurandosi così gran favor popolare e iniziando una gran campagna per la conservazione delle tradizioni locali. Tiwanaco sta a una settantina di chilometri, un paio d’ore di bus, dalla capitale ed è famoso per i monoliti che pesano più di 10 tonnellate e le cabeze clave. Gli scavi sono ancora aperti e i lavori procedono a ritmo lento. E’ molto interessante vedere come gli studiosi svolgono i loro compiti e come strutturano gli scavi. La porta del sole è molto bella e i monoliti sono davvero maestosi.
Sulla strada di ritorno è emozionante vedere l’Illimani che svetta all’orizzonte dietro la collina sembrando spuntare dalla strada che in fondo conduce a El Alto. Di rientro a La Paz c’è un po’ di traffico, e mi perdo a guardare le scritte sui muri della città alta: FUERA USAID DE BOLIVIA, e i cartelli pubblicitari fatti fare da Morales sull’importanza dell’alfabetizzazione nazionale. Il traffico molto caotico mi rimbalza al di là degli oceani sul mio tetto del mondo mentre sono sul tetto del mondo dall’altra parte...le case sono tutte in mattoni rossi e spesso con l’ultimo piano da finire...tutto il mondo è paese. Mi fermo sul ciglio della strada in una sorta di mirador. Da qui si vede La Paz adagiata sul fondo del cratere a picco da El Alto, circondata dalle Ande col ghiacciaio del Chacaltaya e l’inconfondibile Illimani che la domina e la protegge. E’ davvero splendida.
Arrivata al Sagarnaga nel primo pomeriggio non posso non iniziare la mia visita della capitale. Dieci metri più in giù sulla sinistra inizia Calle Linares, che sta qualche quadra (isolato) più in sù rispetto alla piazza della cattedrale di San Francisco. Qui secondo me c’è il più singolare tra i mercati di La Paz: il mercato della Stregoneria o meglio della Hecicheria. A parte tutti i negozietti turistici che invogliano allo shopping, con tutti i maglioncini di lana, le cholite che fanno la maglia ai ferri come le nostre nonne, ci sono le mammane, le streghe, le chiromanti, vere o finte che siano sono mercanti che vendono dalle carte da divinazione agli amuleti d'amore, per arrivare agli intrugli di guarigione che contengono comunque rimedi naturali a base di erbe. Spesso confezionano ofriendas o mesas (offerte) per gli dei pagani (Pachamama, Viracocha e i suoi fratelli). Si tratta di confezioni, preparate con grasso di lama, coriandoli, erbe officinali, semi, banconote false, bottigliette di alcool a 95°, statuine, amuleti, serpenti essiccati, foglie di coca, polveri colorate e agghiaccianti feti di lama imbalsamati che vengono benedetti dagli stregoni e per questo diventano sacri. Tutte queste stranezze non solo altro che tradizioni religiose antichissime messe in atto per propiziare la sorte ed invocare la protezione degli dei o dei santi. Quando devi costruire un’attività commerciale, o una casa, i feti di lama o di pecora sono di buon auspicio se sotterrati nelle fondamenta come dono a Pachamama la madre terra. Versare alcool a 95° sulla terra è offerta propiziatoria per Pachamama e può essere d’aiuto per avere un buon raccolto e per avere protezione. Se invece si è in procinto di fare un lungo viaggio aereo è bene munirsi di un amuleto a forma di condor. Ed ancora il talismano del gufo significa saggezza e buoni risultati scolastici mentre quello del sole l’illuminazione. Questo mercato è davvero particolare e poi la viuzza in salita con gli scorci andini sopra i tetti dei palazzi rende tutto più bello. E’ pieno di colori e di fumi di incensi. Meraviglioso. Passeggio di quadra in quadra e perdo la cognizione del tempo. Poi, dopo un lungo giro, nei pressi della Iglesia de San Francisco mi fermo in un caffè per un buon mate de coca con torta di mele. La Paz mi piace un sacco!
La mattina un grosso autobus ci porta verso il Titicaca. Ben presto ritrovo il nulla circondato dai monti color ocra e i pianori pennellati dai rigagnoli ghiacciati. La strada è lunga e arrivati a San Pedro de Tiquina imbarchiamo il pullman su una zattera e noi ci carichiamo con i nostri zaini su una lancia a gasolio per attraversare il lago. La temperatura è tutto sommato gradevole. Facciamo l’ultimo tratto di bus per Copacabana e poi ci muoviamo a piedi verso la zona dell’imbarcadero. Dopo un lauto pasto davanti a un bel caminetto saliamo sulla barca a motore alla volta della Isla del Sol. Puntiamo a nord. Guardando a est tra le increspature del lago spuntano le vette andine innevate e l’aria cristallina si respira a pieni polmoni...pare di stare in paradiso. Quando arriviamo al pueblito sull’Isla il Sol è alto e caldo. Non sembra di stare a 4.000 metri. C’è una baia con la spiaggia sabbiosa. Un gruppo di maialini scorazzano su un campo da pallacanestro e sulla spiaggia dei bambini nudi corrono e giocano in acqua mentre altri si improvvisano marinai su improbabili imbarcazioni di fortuna fatte di pezzi di poliuretano espanso. E’ bellissimo e qui inizia il mio trek che mi porterà ad attraversare l’isola da nord a sud in due giorni in un dolce saliscendi. Il sentiero si inerpica sulle colline fino a un sito cerimoniale inca e da lì prosegue verso sud dandoci scorci splendidi del lago con i suoi riflessi argento in contro luce e le Ande che sembra escano dalle acque. Durante il cammino ci godiamo il tramonto sul lago e arriviamo all’Hostal Inti Kala che ormai è quasi buio. Le donnine ci hanno preparato del mate caldo e stanno cucinando la cena. Le camere sono ghiacciatissime, al solito. Ormai ci ho quasi fatto l’abitudine. La mattina lo spettacolo che mi si apre scostando le tendine dalla finestra gelata mi fa dimenticare tutto il freddo. Un’alba magnifica, rossa e rosa sul lago coi monti all’orizzonte. Il Titicaca è sempre emozionante e dopo 10 anni riprovo le stesse sensazioni che avevo avuto a Puno in Perù.
Dopo un’abbondante colazione iniziamo il lungo percorso in discesa verso l’imbarcadero sud. Incontriamo cholitas che portano a spasso ciuchini, lama e caprette e ci diamo una rinfrescata alle fonti sacre incaiche che sgorgano per magia dalla montagna. Quando salgo in barca per tornare a Copacabana mi prende la voglia di saltar giù e tornare sulla spiaggetta spensierata insieme ai bimbi...il mio viaggio sta per finire...non ci voglio neanche pensare.
A Copacabana non mi perdo la benedizione delle auto agghindate con fiori e fronzoli fuori dalla cattedrale e poi riprendo il pullman alla volta di La Paz dove mi faccio un giretto in cattedrale e in alcune tiendas per dare un’occhiata all’artesanias locale.
Dopo qualche ora di volo siamo nuovamente a Sucre. Ancora all’Hostal Charcas però sta volta mi son fatta dare una stanzetta sul tetto, quindi ho un bel balcone col sole che ci batte sopra e un po’ di tepore in camera da letto.
Facciamo un giro della città per vedere le cose che non avevamo visto all’andata e poi si fa un salto in un negozietto dove tessono i tessuti Jalq'a e le stoffe tipiche di Tarabuco.
La cultura j’alqa e la cultura tarabuco vivono a stretto contatto nella provincia di Sucre, ma hanno elaborato rappresentazioni del mondo completamente diverse. Ho letto un uno studio che “lo strumento attraverso cui esprimono queste due diverse visioni è ancora rappresentato dal tessuto, per le popolazioni andine da sempre mezzo di distinzione e d’identità. Nella fascia o “pallay” degli “aqsu”, i teli scuri tradizionalmente indossati dalle donne sopra il vestito, ciascun gruppo realizza motivi ornamentali diversissimi.
Dall’ordito in cotone bianco dei tessuti tarabuco emergono, intervallate a motivi astratti, minute figure di animali e scene di vita quotidiana tessute in lana dalle gradazioni di colore vivacissime. La scena è articolata orizzontalmente e divisa in strisce verticali, con un effetto d’ordine e simmetria. E’ la rappresentazione di Akapacha, il mondo terreno e visibile, lo spazio solare e diurno, la natura abitata dall’uomo.
Nelle comunità jalq’a il pallay è invece una finestra sul Manqha pacha il mondo sotterraneo, profondo e interiore, oscuro e caotico. Le donne tessono senza un modello, disponendo le figure in modo apparentemente casuale fino a coprire completamente la tela. Dal fondo nero pece emergono esseri inquietanti di color rosso-arancio o viola che nuotano in un universo confuso e di difficile percezione, privo di qualsiasi rapporto di proporzione o simmetria. Sono i khurus esseri irreali raffiguranti animali talvolta riconoscibili, ma rivisitati in modo fantasioso, con due teste e quattro zampe, o con occhi nella coda, mentre altri sono una sintesi di diverse specie. Alcune figure sono gravide, forse a rappresentare il confuso momento della creazione quando ancora regnavano l’oscurità e il disordine. Tra di essi si distingue appena una specie di uccello antropomorfo la cui testa emana raggi: è Supay o Saxra, il dio delle profondità. L’uomo è invece assente o appena abbozzato, perso nel caos di figure fantastiche.”
La mattina seguente sveglia presto e pullman per lo storico mercado indio de Tarabuco, citato in tanti libri di autori sudamericani e noto in tutto il mondo per i suoi colori.
A 65 km da Sucre si trova il pueblo di Tarabuco, la cui vita gravita intorno al mercato della domenica molto famoso per i prodotti artigianali che si vendono nella stragrande maggioranza dei negozietti e delle bancarelle. Le persone che vengono dalle valli circostanti si distinguono tra loro per i diversi abiti tradizionali che indossano. I tarabuquenos hanno un grande poncho a righe rosse, rubino, marroni e gialle, gli zoccoli di legno e un copricapo di pelle che è identico agli elmetti che portavano i conquistadores spagnoli, con attaccati spesso dei piccoli pon pon di lana colorata. C’è un caos biblico, gente coloratissima che vende di tutto. Il mercato della verdura è strepitoso. Qui mi fermo in una bancarella a mangiare un buon asado de pollo con arroz insieme alla gente del posto e ovviamente a mani nude. Il mercato delle sementi mi porta fuori dal tempo. Ha un comedor enorme dove tutti mangiano insieme su tavolacci di legno mentre altri sono intenti a vendere i loro prodotti. Una donna tiene un sacco che fa chicchirichì e un’altra ha un carretto con una valanga di uova bianchissime, una donnina cuoce delle trote alla griglia e un signore porta in giro dei maialini. Insomma un tripudio di colori, suoni e profumi.
Sul pullman al ritorno sono un po’ stordita, sonnecchio e penso che domani sarò di nuovo a Santa Cruz de la Sierra.
La sera si fa una cena tipica mentre si aspetta che un artigiano ci dipinga a mano le magliette con la hoja de coca e lo slogan contro la demonizzazione della stessa: la hoja de coca no es droga!
Santa Cruz è calda per poco…prendiamo la prima pioggia di tutto il viaggio e l’umidità si fa sentire. Non mi sembra vero.
La mattina vengono a trovarci Luigi e Mirna, che teneri. Terremo i contatti con loro e il loro centro.
Ora partiamo per Buenos Aires dove dovremo attendere 10 ore per poter decollare per Roma con la famigerata Aerolinas Argentinas, un delirio. Per fortuna in aeroporto ci offrono un’abbondante cena a base di bisteccone di angus favoloso e il tratto su Roma alla fine risulta una pacchia, ho 4 sedili tutti per me dove stendermi e dormire fino in capitale. Purtroppo per soli 20 minuti perderò la coincidenza per Milano, ma sempre “la famigerata” mi offrirà una notte in quel di Ostia e un volo alle 9 del mattino per la mia città…Tutto sommato 3 giorni per tornare a casa dopo tutte le avventure di questo viaggio ci stanno anche…ora ho di nuovo voglia di partire per un altro tetto del mondo dove la terra tocca il cielo...dall'altra parte del mondo.