martedì, settembre 24, 2013

Kala Patthar, Paradise Lost over Everest Base Camp

E’ ARRIVATO IL TEMPO DI TORNARE ALL’EVEREST

Il 20 aprile atterro a Kathmandu, e la sensazione di felicità e di sentirmi a casa è come sempre non spiegabile a parole. Nel pomeriggio sono al Planet. I ragazzi e Francesco mi danno un benvenuto indimenticabile.  Ne ho un gran bisogno e loro lo sanno. Incontro anche Isa, che non vedevo dal concerto di Vasco di due anni fa, e vederla in Nepal è una gran carica di energia. Con lei c’è Genna, un uomo che se lo guardi fisso negli occhi ti ci perdi dentro, un grande mare, una sconfinata valle verde, ti ci perdi davvero. E’ qui per finire il suo manoscritto: Vivere senza Calzini.
Essere circondata da tanto bene è davvero provvidenziale.
Quest’anno non si vedono le montagne, e il cielo è plumbeo di freddo e gelo. Mai ho sentito tutto questo in Nepal. So che il Nepal è così con chi non ha cuore aperto, con chi non ha occhi per vedere, con chi vuole venire qui privo di amore, ma solo per conquistare stima di se e ego. Il Nepal è così. E l’Himalaya le cose non te le manda a dire.
Io sono felice di essere qui, come sempre, il mio cuore è felice in Nepal. Inoltre sto esaudendo il desiderio di una persona  e questo mi darà molti crediti per il mio Karma e la mia via di rinascita.

Il 21 faccio un giretto giù a Bhaktapur. E’ sempre meravigliosa, un gioiello. E tale deve essere preservata, conservata, rispettata. Non sono certa che questo sia del tutto chiaro all’NTB e al VCD office della città, istituzioni più attaccate al denaro che alla conservazione degli inestimabili beni culturali che hanno. Per i miei gusti ci sono troppo motorette nelle vie e chi di dovere deve aver abbassato la guardia. La lungimiranza, la cura dei propri beni, è questo che va continuamente ricordato alle istituzioni dei paesi in via di sviluppo, come il Nepal. Su queste cose fonderanno le basi per il loro futuro.
Dovrei andare in visita al ministero del turismo, farò male, e non ci andrò, anche se avevo promesso in BIT che sarei andata. D’altronde mi dico: chi sono io per mettere il naso in cose più grandi di me? Ma sono certa che l’anno prossimo non eviterò di andarci e ci andrò di corsa. Il Nepal, come il resto del nostro mondo, è in precario equilibrio e chi lo ama, lo sente, e deve fare qualcosa.
Il 22 all’alba sono all’aeroporto, i voli non partono, solo due velivoli della Tara e uno della Sita si sono alzati in volo verso Lukla e poi non torneranno giù. Tutto si ferma. C’è mal tempo. Il Khumbu non ci vuole. Alcuni partono in elicottero sborsando 300 dollari a testa e sfidando il meteo. In aeroporto c’è una folla mai vista. Conosco una coppia, lei di origine tedesca, lui di Bombay, entrambi cittadini americani che vivono a Tokyo, una coppia di Italiani in panico, hanno i giorni contati ed è il secondo giorno che vengono in aeroporto e per restare ancora a terra.
Decido di posticipare al 24 avendo un’opzione per il primo volo Sita che partirà alla volta di Lukla, grazie a Larke, amico del mio fido Som. Inutile tornare domani per niente. Quindi l’indomani vado a fare un giretto a Pashupathi e Bouddhanath, per una Khora prima del trekking. C’è una grande Puja per la pace e spero mi dia una buona benedizione per il mio percorso.

VERSO LUKLA: in volo e poi 6 ore a piedi pian piano fino a MONJO inclusi gli stop
Il 24 il volo Sita parte puntuale e nonostante i nuvoloni bassi e scuri arrivo a Lukla senza scossoni. Fa freddo. Molto freddo. Chissà sopra cosa troverò. Non mi alletta fare di nuovo il Khumbu sotto la neve. Dopo un tea caldo dagli amici del Buddha Lodge, incontro Chhitra il mio porter, felicissimo di avere solo 13kg da portare,  e finalmente mi incammino.
Nulla è cambiato, il verde, le casette, i lodge sul sentiero, la gente sorridente. Quanto è meraviglioso questo mondo. Ci sono molti trekkers sul cammino, d’altronde è il 60° anno dalla conquista della vetta dell’Everest e in molti sono accorsi per celebrare l’evento. Una giapponese euforica mi  saluta dicendo: "è durissima ma è meraviglioso". Mi viene da sorridere. Non sapessi cosa mi aspetta…
Mi fermo a Benkar al Waterfall Lodge a salutare gli amici di Rob, un mio contatto di Tripadvisor, anche lui innamorato del Nepal. Prima di partire mi ha mandato delle foto da portare a questa famiglia. Sono gentilissimi e molto felici delle foto e di ricevere news del loro grande amico inglese. Chiacchieriamo con una buona tazza di tea.
Som mi consiglia di proseguire il più possibile in modo da avere meno strada l’indomani, quando dovrò farmi la famosa salitona di Namche. Quindi mi fermo al Kailash Hotel a Monjo, un villaggetto sotto la punta del Thamserku, l’ultimo prima di Jorsalle. Faccio merenda, tea e biscottini e mi metto a giocare a carte. C’è un gruppone di sedici coreani, un indiano vegetariano, una coppia di inglesi. Insomma un bel po’ di gente. La sera festeggiano il compleanno di un coreano e offrono la torta a tutti. Nei lodge non sei mai solo, conosci sempre gente, l’atmosfera è frizzante, bella.

DA MONJO A NAMCHE BAZAAR: 5 ore e mezza a piedi inclusi gli stop
Al mattino una bella omelette e via. Passo al check post di Jorsalle e dopo aver registrato il TIMS entro nel Sagarmatha National Park.
Il Dudh Kosi ha un’acqua azzurrissima come sempre e, arrivata all’Hillary Bridge, inizio piano piano la salita verso Namche. Quest’anno sono davvero una lumaca e non ricordo di aver faticato così
l’ultima volta che l’ho fatta. Arrivata al view point sta volta sua maestà si fa vedere:” Namaste Mero Sagarmatha, è da un anno e mezzo che non ti vedo. E sono strafelice di incontrarti di nuovo”.
A Namche arrivo giusto per pranzo, decido si stare all’Hotel Hill Ten, ma è davvero molto basico e mi riprometto che al ritorno andrò dal mio amico Tenzing all’Alpine Lodge o dalla mamma di Patrizia al Thamserku. Ho voluto cambiare per conoscere questo ragazzo Tamang che ha scalato l’Everest e che ora ha questo grosso Lodge, ma l’Alpine Lodge non lo batte nessuno e Tenzing è un padrone di casa favoloso. Faccio il bucato e stendo tutto al sole. Poi per merenda vado alla Hernan Backery. Biscottini deliziosi e tea, come sempre indimenticabili.

RIPOSO A NAMCHE con passeggiata di 3 ore
Al mattino, dopo abbondante colazione, mi dirigo verso la caserma per accedere al view point del
villaggio. Da qui il cielo terso mi regala la vista della valle con l’Everest, il Nuptse, il Lhotse e l’Ama Dablam sullo sfondo. E’ sempre una grande emozione per me rivedere i miei colossi. Resto ferma parecchio a osservarli al suono del vento . Dopo la visita al museo Sherpa, dove rispolvero residuati storici che non vedevo da un po’, mi inerpico sul crinale che sovrasta Namche e che porta su all’hotel dei giapponesi, che sta a poco meno di 4000 metri, giusto sulla collina sopra Namche.
Su non c’è nessuno e il sentiero si staglia all’orizzonte sulle pareti di ghiaccio del Lhotse. Meraviglioso.
Sulla via del ritorno, mi fermo a guardare i chorten di Shyangboche dove stanno facendo un funerale di un monaco, una pira, e in cielo i falchi disegnano cerchi perfetti nel blu.
Quando torno giù vado al mercato, che è proprio sotto il lodge, ed è pieno di gente che vende qualsiasi cosa, dalle saponette agli spaghetti pugliesi, dal burro di yak ai vestiti. Poi torno all’hotel e parlo un po’ coi due gestori. Sono Tamang e appunto uno di loro ha scalato l’Everest qualche anno fa e mi racconta la sua esperienza. La sera ci vediamo il mitico film tedesco “Sherpas. Die Wahren Helden am Everest” coi sottotitoli in inglese e poi andiamo tutti a nanna.

DA NAMCHE BAZAAR A DEBOCHE: 6 ore a piedi inclusi gli stop
La mattina ci si alza presto. Dobbiamo fare il tragitto che da Namche porta a Tengboche e da Phunki Thanga in poi, non è che sia proprio una passeggiata. La salita è tostina pure lì e tra l’altro è bella al sole.
Faccio sosta al memoriale di Tenzing Norgay con la sua splendida vista sull’Everest, Lhotse e Ama Dablam che sembrano accarezzati dalle bandiere di preghiera tibetane che sventolano in alto nel cielo. Qui mi rendo conto per l’ennesima volta che il mondo è piccolo. Vedo una bella ragazza bionda che cammina insieme a una ragazza nepali con un grosso zaino sulle spalle. Lei mi guarda e mi chiede se le posso fare una foto col panorama sugli 8000 e mi viene un’illuminazione: “Tu sei Fay? Vero?” le dico, e lei subito capisce chi sono. Mi sono ricordata subito di questa utente di Tripadvisor che mi aveva scritto un bel po’ di email prima di partire per il trekking. Ed eccola qui. Dopo la chiacchiera di rito ognuna di noi si incammina col suo passo. Ci incontreremo altre volte,
sempre col sorriso sulle labbra.
La cosa che quest’anno mi lascia stupita sono i colori. Con la scusa che in queste settimane c’è stato mal tempo e ha piovuto, la natura è un sacco rigogliosa, molto più del solito. Le pinete sono verdissime, i pendii sono pieni di fiori colorati, ci sono degli iris viola stupendi a bordo sentiero e Som dice di aver visto anche le orchidee. Poco prima del bivio Khumjung-Gokyo-Tengboche la foresta di rododendri rossi è completamente in fiore e io sono quasi commossa. Non ho mai visto niente del genere in Khumbu fino ad ora. La Valle mi da il suo benvenuto così.
A Phunki Thanga mi fermo a pranzo dalla mamma di Tsering al Paradise Lodge. Lei, quando mi vede, mi viene incontro e mi getta le braccia intorno al collo: “Figliola come stai? Finalmente sei tornata!”
Oddio che emozione, poi spunta Tsering mi fa vedere la sua caviglia, che si era infortunato nel 2011, ora in ottima forma e mi presenta il suo bambino. E’ bellissimo. E non speravo si ricordassero di me. Pranzo con una bella zuppona di noodles e verdure. Mamma mi dice che quest’anno andrà bene e che sarò protetta dalle montagne e mi mette al collo una Khata bianca benedetta. Che bella cosa. Ora sono pronta per proseguire.
Attraverso il ponte sul Dudh Kosi e inizio l’inesorabile salita verso Tengboche. Il sentiero a zig zag inizia subito dopo le ruote di preghiera che ruotano mosse dai mulini ad acqua del torrente, e dopo il check post. Anche qui i rododendri sono tutti in fiore ed è uno spettacolo veder spuntare il Kangtega sopra le cime rosse di questi alberi. Questo tragitto è davvero bello. Arrivata a Tengboche decido di non fermarmi qui quindi non passo a salutare Pemba Sherpa all’Himalayan Hotel. So che ci rimarrebbe male se passassi solo a salutare senza fermarmi a dormire, ma non ho voglia di pernottare qui. Al ritorno non essendo di tappa potrò fermarmi per un tea a salutare tutti. Proseguo per Deboche che è un po’ più in basso, meno ventoso, più protetto e decisamente meno freddo di Tengboche.
La discesa è dolce e i tronchi delle betulle rosse si sfogliano e brillano alla luce del sole ricoperte di scintillanti licheni.  Il percorso è poi un po’ ombreggiato dagli alberi e porta alla piana di Deboche in una mezz’oretta di cammino. Deboche è in una conca riparata dai venti freddi del Khumbu ed è l’ideale come sosta se appunto si è in cerca di tepore. Inoltre qui le sistemazioni per i porter sono molto più comode, meno affollate e più calde rispetto a Tengboche. Mi fermo al Rivendel. Questo lodge ha un grande giardino dove si possono piantare le tende.
Salgo al piano di sopra per chiedere se hanno stanze libere e mi dicono che ne sono rimaste due. Per me va bene tutto, indi deposito i pesi e mi piazzo nella dining che è favolosamente tiepida. Mi faccio un bel tea e chiacchiero con Som e altri trekkers. La sala si fa sempre più calda e sto con il maglioncino e a piedi nudi. Una meraviglia.
DA DEBOCHE A DINGBOCHE: circa 6 ore a piedi inclusi gli stop
Al mattino, dopo aver preso una bottiglia d’acqua a un baracchino appena fuori dal Lodge, al modico prezzo di 250 rupie (un furto), mi incammino alla volta di Dingboche.
Passo accanto al monastero femminile di Deboche. Questo posto lo ricordo bene, anche perché Pat me ne ha parlato in merito agli aiuti dati alle monache che vengono da Rongpuk. http://www.ecohimal.it/richieste.htm Sarebbe bello avere il tempo di starci un po’, ma io non ho questa possibilità. Devo proseguire.
Il sentiero è un lieve saliscendi tra la foresta di betulle e rododendri. Arrivata al ponte tibetano lo attraverso e, passata di là, ho una bella vista sull’Ama Dablam e man mano che procedo, vedo il colle su cui poggia Tengboche allontanarsi all’orizzonte. Mi inerpico sul crinale e poco più avanti, sotto di me vedo il ponte tibetano che porta alla via verso il Campo Base dell’Ama Dablam.
Pian piano arrivo alla porta di Pangboche e più avanti , al villaggio, mi fermo per un tea. Sono molto
stanca e mi addormento un po’ sul recinto di pietra del lodge. Sto ferma una mezz’ora, poi riprendo il cammino pian piano in salita. Mi fermo per pranzo ai 4.010mt di Shomare, ma resto una mezz’ora rintronata dentro il lodge per un forte mal di testa. Poi mi faccio coraggio, mangio un bel frittatone e un brodo di noodles e il mal di testa va via da solo.
Salgo sulla via che porta al Periche Pass e passato il villaggetto di Orsho vado verso il bivio Periche/Dingboche e scendo a destra sulla via per Dingboche.  E’ nuvoloso e cade qualche fiocco di neve. Davanti a me ho i detriti che son scesi giù dai ghiacci dell’Ama Dablam.
Som mi racconta che l’anno scorso c’è stata una grossa frana venuta giù dalla montagna e i segni si vedono ancora. Due grosse strisce bianche di detriti coprono le pendici brune di questo colosso himalyano finendo giù nell’Imja Khola. Indietro più in là si vede appena impercettibile il sentierino  che porta alla base della montagna. L’Ama Dablam ha cambiato profilo e non so dire se è più spettacolare così o come si vede da più in giù. Tra le nubi spunta a tratti la cima e, con la luce che filtra sulle nubi, sembra ancora più verticale e possente di quello che è.
Dietro la collina finalmente scorgo lo stupa di Dingboche, e più in là, il villaggio adagiato in una piana ai piedi del Lhotse.
Arrivo al Green Tara. Io e Som decidiamo di stare qui. Il padrone della guest house è scappato dal Tibet attraverso il Nangpa La un po’ di anni fa e i suoi famigliari sono stati “fatti sparire” dai Cinesi. Lui non ne sa più nulla. Le cose che mi saltano subito all’occhio sono due grossi drappi arancioni su cui sta scritto “Free Tibet” e su cui sono appuntate delle foto delle persone sparite nel nulla.
Accanto al Green Tara c’è una fornitissima Backery tedesca con ogni ben di Dio, ma io sono assalita da fame salata. Mi piazzo nella tiepida dining, ordino un termos di acqua bollente, ci caccio dentro un bel po’ di zucchero. Poi apro
il mio banchetto a base di salame e taralli. Olè. Gli sguardi sgranati delle persone che mi sono sedute accanto non mi risparmiano. Sono la coppia di ragazzi americani che ho incontrato all’aeroporto di Kathmandu quando non è partito il volo del 22 aprile. Alek e Erin mi raccontano che hanno preso l’elicottero il giorno dopo e che oggi è il loro giorno di acclimatamento a Dingboche. Sono stati a Chhkhung e al Chhukung Ri. Ma non mi sono sembrati così entusiasti. Si sono molto stancati. Offro loro le mie pietanze e gli presento Som. Stiamo a chiacchierare fino all’ora di cena, dove non mi faccio mancare il mio zuppone di noodles. Verdure e carboidrati sono fondamentali.
Erin corre fuori a fotografare il tramonto. L’Ama Dablam è rosso fuoco e il Lhotse è coperto dalle nubi. Meraviglioso. I vetri iniziano a ghiacciare. Qui inizia il vero freddo del Khumbu.
Restiamo al calduccio della dining a guardare le monache preparare le candele al burro di yak per la Puja di domani mattina. E quando la stufa ha bruciato l’ultima cacca di Yak andiamo a dormire.

DA DINGBOCHE A LOBUCHE: circa 5 ore e mezza a piedi inclusi gli stop
La mattina alle 6 i monaci stanno finendo di preparare i tavoli per la Puja. Fuori il ginepro arde già dall’alba e il fumo si staglia nel cielo verso i ghiacci del Lhotse.
Faccio colazione con l’immancabile e energetica omelette mentre una monaca inizia a battere il tamburo e  il priore inizia a salmodiare mantra che saranno di buon auspicio per la semina che verrà fatta oggi.
Risalgo il sentiero sul crinale che porta sopra il colle dietro Dingboche. Dall’alto il villaggio è stupendo. E’ proprio ai piedi dell’Ama Dablam che è scintillante col sole sulla sua cima. Da qui si vedono benissimo i campi pronti per la semina. Da sopra lo sguardo spazia su un panorama mozzafiato. Ci sono dei chorten e dietro di loro si scorge la Valle del Khumbu che scende con all’orizzonte le cime del Thamserku e del Kangtega che mi mostra un altro dei suoi splendidi profili, a destra si vede la cima del Taboche e quella del Cholatse, che ha una parete verticalissima che sembra non finire mai sotto le nuvole e davanti a me ho appunto il villaggio e l’Ama Dablam che gli svetta sopra. Voltandomi a sinistra fino a girarmi totalmente vedo invece la punta del Makalu, il Peak XV, la via per Chhukhung e infine le pareti ghiacciate e possenti del Lhotse.
Che emozione essere qui. Lascio il mio sassolino su uno dei chorten e riprendo la via che più o meno in piano sovrasta la valle di Periche. Incontro uno sherpa con la sua mandria di Yak e un gruppo di Italiani di Rovigo che stanno scendendo giù. Mi fermo a farmi una chiacchierata e mi raccontano di aver visto ben poco. Su era brutto tempo e sono più i giorni che si son fatti con nevicate e nuvoloni che le ore di panorama che han visto. Da Kala Patthar non han visto nulla. Mi sento un sacco fortunata. Fino ad ora, a parte il ritardo della partenza, il meteo è stato dalla mia parte. L’Himalaya mi ama.
Mi fermo a guardare Periche che sta sotto di me e poi proseguo fino alla discesa verso Dougla. Arrivata al ponte mi prende di nuovo il mal di testa. Anche oggi accidenti. Faccio la piccola salita fino alle case e entro nel Lodge con gran desiderio di cibo. Un bel piattone di noodles e il mio mal di testa scompare magicamente. Ho bisogno di energia per salire al Dougla Pass.
Una salita molto lenta mi porta al passo. Qui prendo fiato e mi riposo facendo un giretto tra i chorten.
Le bandiere Tibetane sventolano al forte vento e le preghiere volano in alto per chi da qui non ha più fatto ritorno. In questo passo ci sono i memoriali dedicati a molti di coloro che sono morti durante le ascensioni ai colossi della Valle del Khumbu.
Tra i chorten spicca quello dedicato a Scott Fisher, il capospedizione di quella che fu la tragedia del 1996 raccontata da Jon Krakauer  nelle pagine di Into Thin Air/Aria Sottile. Sto seduta un po’ a pensare e poi riprendo la via verso Lobuche osservando che dall’altra parte della valle sul costone si vede il sentiero che porta al Cho La sulla via per Gokyo, dove ero stata due anni fa, mentre invece all’orizzonte inizia a spuntare la punta del Pumori.
Il tempo si fa brutto, tira un vento gelido e le nuvole sono molto basse. Mi metto su il goretex. Fino ad ora ho sempre camminato solo con la windstopper di pile. La mia affezionata giacchetta che oramai è diventata grigia e che queste montagne le conosce come me, oggi non è più sufficiente.
Quando arrivo a Lobuche, dopo aver depositato i pesi nella cameretta gelata mi metto nella dining e incontro nuovamente Erin e Alek. Sono partiti prima dell’alba con le torce frontali (due matti) e sono qui già da qualche ora. Faccio la mia solita merenda con taralli e salame e faccio conoscenza con altri due personaggi che stanno al lodge. Un olandese che ha un berretto di lana colorato e un australiano. L’olandese sta scendendo con la sua guida dal suo trek all’Island Peak e sta raccontando di avere un berretto per la mattina, uno per il pomeriggio e uno per la sera (il topì nepalese) perché la sera, anche nei lodge, bisogna essere eleganti. Io mi metto a ridere, ma lui resta serissimo e mi chiede come mai io ho un berretto solo. Poi guarda l’orologio, si leva il berretto di lana e indossa il topì. E’ l’ora del berretto elegante.
L’australiano, un uomo molto bello, è solo anche lui con la sua guida Sherpa. Mentre assaggia un tarallo col salame mi racconta che vuole fare la vetta dell’Ama Dablam dal versante più ripido. Io lo guardo sgranando gli occhi: “ma è il versante che ha più valanghe! E ora a fine stagione è pericoloso! Che vai cercando?” e lui se la ride. Racconta che qualche anno fa ha scalato l’Everest da nord. Dice che lui è guida alpina. Ha fatto il Mc Kinley e l’Aconcagua e adora l’Italia, si è fatto il Monte Bianco e la sua ragazza è siciliana: “I’ve to be careful with my girlfriend not with mountains” Gli piacciono le sfide.
Mi viene una stanchezza tremenda, così tanta che quasi mi sembra di star male. Resto immobile tra il sonno e la veglia seduta sul divano tibetano a occhi chiusi per almeno mezz’ora. Poi mi riprendo, ceno e mi rimetto a chiacchierare. Dopo una partitina a scala quaranta con Som me ne vado a dormire. Fa un freddo cane.
DA LOBUCHE A GORAK SHEP FINO A KALA PATTHAR E RITORNO:
una giornata a piedi, circa 10 ore inclusi gli stop
Al mattino faccio colazione presto. I vetri sono ghiacciati e nella dining ci sono circa 4°C. Fa freddo! La luna si vede bella alta di fianco al Lobuche Peak. E’ tutto stupendo. Un paesaggio cristallizzato. Mi incammino verso la morena del ghiacciaio del Khumbu. Dopo il bivio che porta alla Piramide del CNR, dove i nostri amici italiani hanno costruito l'osservatorio climatico più alto del mondo, c'è un paesaggio impressionante, una pietraia antichissima che si muove di giorno in giorno, venendo giù dall’Everest. Guardo la piramide del Pumori stagliarsi nel cielo blu.
Oggi è una giornata splendida. Cammino pian piano e mi fermo spesso a osservare lo spettacolo che mi circonda e a riposare. Finalmente arrivo alla salita che mi porta proprio sopra la morena. Da qui ci sono tre colline di detriti da oltrepassare per arrivare a Gorak Shep. Da sopra, il ghiacciaio del Khumbu mi appare di sotto in tutta la sua imponenza. Vele di ghiaccio azzurre si stagliano sul fondo roccioso e gole di ghiaccio blu sembrano sparire nelle viscere della terra. Alzando lo sguardo salgo fino alla vetta del
Nuptse. La sua imponente parete sud domina la scena. Pare maculata, rocce e ghiaccio si mescolano assieme creando improbabili figure. Davanti a me il Pumori guarda dal basso la punta dell’Everest che spunta dietro a un colle senza nome. Sono stanca. Ma qui è così bello che non sento altro se non emozioni, quelle emozioni e entusiasmo che mi fanno andare avanti, sempre. Scorgo in fondo il Campo Base con le tendine gialle che sembrano puntini.
Quando arrivo a Gorak Shep vado allo Yeti Resort. Mi faccio fare subito un tea caldo da Pasang. La dining è piena zeppa di trekkers. Sono da poco passate le 11 di mattina. C’è un gruppo di alpinisti dell’esercito americano che sono del team “7summits” che sono al tentativo della loro 7° vetta, l’Everest. Il tetto del mondo se lo sono tenuto per ultimo. Molti fanno loro gli auguri, alcuni coreani chiedono le foto. C’è un bel movimento. Pasang parla con Som della zuffa di Stek e Moro con gli Sherpa. E’ arrabbiato perché dice che a causa di sta cosa gli Sherpa ne escono con la reputazione macchiata. Si fa presto a demonizzare gente senza nome che lavora, quando ci sono di mezzo noti alpinisti di fama internazionale, risponde qualcuno da dietro il bancone. Poi non sto più ad ascoltare. Oramai faccio fatica a seguire bene i discorsi in Nepali. Devo stare iper attenta e adesso sono stanca.
Io non conosco personalmente questi due alpinisti, ma mi pare davvero strano sentire che siano stati aggressivi verso gli Sherpa. E conoscendo quanto sia mite il popolo Sherpa sono ancora più incredula a pensare che degli Sherpa siano stati aggressivi con degli occidentali. Senza gli Sherpa, la maggior parte degli scalatori non sarebbe in grado di salire sulla montagna.
Di loro scrissi le mie impressioni nel mio resoconto del trekking a Gokyo http://www.iltettodelmondo.com/2011/07/come-le-formiche-sullhimalaya-piedi-ai.html due anni fa: “Quanti Bharya incontro che camminano curvi e schiacciati dai pesi che hanno sulle spalle che sono enormi rispetto alla loro corporatura. E ha voglia la gente a dirmi che sono abituati, che hanno fibra forte. Sono tutti più giovani di me ma sembra abbiamo almeno 10 o 20 anni in più rispetto alla loro età.
Ne incontro uno che ha sulla schiena sette materassi, un altro trasporta quattro bombole del gas, poi ce ne sono due che hanno quattro porte di legno caricate sulla schiena, un altro che ha talmente tante taniche addosso che gli si vedono solo le gambe dai polpacci in giù. Incontro un gruppo di Bharya che si coprono il viso con un fazzoletto e sono curvi sotto gerle ripiene di carni macellate chissà quanti giorni fa. Impressionante.
Qualche giorno fa, in una tea house a Phunki Thanga, ho conosciuto Tsering. Mi ha raccontato che, mentre trasportava 60kg di materiale, era scivolato sul percorso spaccandosi l’infradito e slogandosi la caviglia. Aveva un cotechino al posto del piede e non riusciva a reggersi, ma era più preoccupato dal fatto che non sapeva se sarebbe riuscito a portar su il materiale al Campo Base piuttosto che per la sua caviglia. Gli abbiamo spalmato un unguento a base di ketoprofene, raccomandandogli di stare a riposo qualche giorno e di fare impacchi freddi. La maggior parte dei portatori ha tre sacconi da spedizione sulla schiena, legati tra loro con una corda, che sorreggono sulla sommità della testa mettendo in tensione tutti i tendini e i muscoli del collo. L’anno scorso uno dei figli di Ama Sherpa, la mamma Sherpa di Pat, è scivolato su un gradino del sentiero per Lobuche, ha perso l’equilibrio e nella caduta, la corda che reggeva i sacconi gli ha spezzato l’osso del collo per il peso.
I portatori sono come piccole formiche che trasportano foglie e sassolini che sono il triplo di loro.
I Bharya, come le formiche a piedi ai piedi degli ottomila.
Senza di loro la stragrande maggioranza di noi occidentali non salirebbe a fare trekking turismo nelle valli nepalesi. E pochissimi sarebbero in grado di salire i giganti della terra senza il loro aiuto. L’Everest viene totalmente attrezzato due volte l’anno. Almeno un centinaio di nepalesi salgono sul tetto del mondo, montando scale, corde fisse, spianando e attrezzando la via che i turisti alpinisti di tutto il mondo dovranno affrontare per arrivare in cima al tetto del mondo con le spedizioni commerciali, aiutati da almeno una guida ciascuno che li spinga e tiri su e da un portatore che porti loro in cima le bombole d’ossigeno che gli serviranno per arrivare in vetta a passo di lumaca. L’Alpinismo è un’altra cosa, come diceva Bonatti, questo è il turismo degli ottomila. Io dico che ognuno ha i suoi limiti e il suo Everest. Il mio è sempre lì, e io lo guardo con rispetto e riverenza dal basso, ai piedi delle sue pendici, ascoltando i segnali che la montagna mi manda per farmi capire fino a quanto mi posso a lei avvicinare e mai pensando di essere più forte, più audace, più furba di lei.”
Gran lavoratori, mesti, disponibili, forti, unici, fedeli e affidabili compagni di avventure. Questi sono per me gli Sherpa. Non ce n’è uno, tra quelli che conosco, che non mi abbia trattata come una regina da quando vengo a camminare in Himalaya.
Vado a vedere le stanze del Lodge. Sono piccole e fredde, ma hanno aspetto accogliente. Nonostante sia stanca però non ho voglia di dormire a 5.125 metri. E’ presto, manca poco a mezzogiorno e se salgo ora sul Kala Patthar di certo riesco a tornare giù a Lobuche per il tramonto. Inoltre il cielo è azzurrissimo e non ha neanche una nuvola e il sole non è più dietro all’Everest, quindi c’è luce ottima per le foto. Quando mi ricapita un meteo così? E così sia.
Vado su e mi riprometto che quando sarò scesa mi farò un succulento pranzo.
Il panorama da Kala Patthar è davvero superbo, non ho parole per descrivere l’emozione di essere qui di nuovo al cospetto del mio Everest. La piramide del tetto del mondo è ben visibile con un cielo blu alle spalle e il solito sbuffo scapigliato di neve portata via dal forte vento in vetta. Più in giù, i ghiacci dell’Ice Fall scintillano al sole e scendono giù nel Ghiacciaio del Khumbu.

Da qui tocco il cielo con un dito e sono davvero a un passo dal mio paradiso perduto, il paradiso sul tetto del mondo.
Scendo pian piano, alle mie spalle il Pumori, sotto di me il Ghiacciaio del Khumbu e il villaggio di Gorak Shep.
Allo Yeti Resort mi mangio un piattone di noodles saltati con verdure, mi bevo due o tre tea chiacchierando con Pasang, prima di riprendere la via verso Lobuche, lasciandomi dietro tutto, tutto quello che l’energia buona di questo  posto è riuscita a sostituire con se.
Saluto Erin e Alek, arrivati da poco anche loro, che staranno qui questa notte e poi ripartiranno all’alba alla volta del Cho La, e riparto.
Arrivo a Lobuche che il cielo è rosso al tramonto. Quando entro nella dining del Peak XV l’australiano mi guarda e mi fa: “ Already back?” e poi se la ride: “We’ll have dinner together this eve”.  La serata passa piacevolmente con chiacchierate e risate, poi prima di andare a dormire gli auguro un gran “in bocca al lupo”  accompagnato da un serio “take care”.

DA LOBUCHE A PANGBOCHE: circa 6 ore a piedi inclusi gli stop

Al mattino gran omelette e via verso il basso. Al Dougla Pass rendo omaggio ai chorten e saluto il

Pumori per l’ultima volta. Quando arrivo a Dougla faccio un tea stop con barretta al cioccolato annessa. Il cielo è tersissimo. Meraviglioso. Proseguo poi in diagonale sulla destra, per la via che scende nella valle che porta a Periche. Il vento è molto forte, non come in Mustang, ma comunque fastidioso. Giù incontro la vegetazione che avevo trovato prima di Gokyo. Piccoli cespuglietti con fiori marroni che sembrano chiodi di garofano e hanno un profumo fantastico. Campanelle e fiorellini viola, qualche ruscello e l’immancabile mandria di Yak coi piccoli che pascola e bruca tranquilla.
Periche sembra vicina ma non arriva mai e camminare ai piedi del Tobuche e del Cholatse è davvero spettacolare.
Periche è una ghiacciaia battuta dai gelidi venti che scendono dalle vette nella sua stretta valle. Mi fermo a pranzo e giù a quest’ora del giorno, che dovrebbe essere la più calda, si ghiaccia già. Nel ristorante del Lodge oltre ai soliti mandala appesi c’è un poster che attrae la mia attenzione, su cui sta scritto: "Change and Thus Impermanent".
Quando mi rimetto in cammino vedo che hanno costruito un luxury lodge che fuori ha delle sdraio da piscina al sole. Ovviamente vuote, col freddo che fa.
Mi lascio Periche alle spalle.
Arrivata al fiume, scendo per attraversarlo e risalgo sul sentiero che porta al Periche Pass. Sul passo resto basita perché incontro un portatore che sulla schiena ha caricato un grosso frigorifero della SMEG, quelli anni 60 bombato col cellone. Non ho parole e non ho neanche cuore di fargli una foto. Questo mi batte il porter coi materassi visto due anni fa. Non c’è limite al peggio.
Scendo verso Orsho riprendendo la via fatta all’andata. A Orsho mi accorgo che sui muri delle case sono incise forme falliche che mi ricordano, anche se decisamente più rudimentali, quelle viste sulle case in Bhutan. Il sentiero prosegue in alto su e giù a strapiombo sull’Imja Khola. Più avanti, guardando giù, scorgo la sagoma di uno yak, sdraiato in riva al fiume, con una coperta sul dorso. Guardandolo meglio capisco che dev’essere caduto giù dal dirupo. Ogni tanto alza la testa e sbuffa. Povera bestia. Bisognerebbe abbatterlo. Una sofferenza vederlo così. Poco più in là incontro una donna Sherpa con una gerla sulle spalle e la fermo per dirle dello yak. Con mia sorpresa lei mi dice che è lì da molti giorni e che la gente del villaggio gli sta dando da mangiare. Aggiunge che è forte e sopravvivrà ancora molto, anche se ha la schiena spezzata. Gli yak non possono essere abbattuti. Resto un po’ sconvolta da questa cosa, la trovo una umanità disumana, un po’ come l’accanimento terapeutico. Questo yak non potrà mai più alzarsi con le sue gambe. E chissà quanto sta soffrendo. D’altronde ricordo il mio primo viaggio in Tibet nella jeep con Lidong, quando con Sandra volevamo far secca una mosca e lui fece fermare la jeep e fece uscire la mosca dalla porta, indispettito: “Potrebbe essere il corpo di un vostro caro estinto! Perché ucciderlo?”
Arrivo a Pangboche e mi fermo all’Om Kailash, il Lodge davanti a quello dove all’andata mi sono fatta la sosta a metà mattina. Vado nella dining a chiedere un tea e: “Mero didi how are you? You’re back here in Khumbu again?” Io non ci posso credere. Tsering mi dice “Ti ricordi? Al Namgyal Lodge di Machhermo? Ora lavoro qui, più in basso in un posto meno sperduto”. "Certo che mi ricordo" gli dico. Che bello ritrovare vecchi amici. Ci facciamo un tea insieme, io, lui e Som. E’ fantastico.
Dalla finestra della dining del Lodge vedo l’Ama Dablam all’ultima luce del giorno. Una meraviglia.

DA PANGBOCHE A NANCHE BAZAAR: 6 ore e mezza a piedi inclusi gli stop
Il mattino dopo un grosso abbraccio e un arrivederci a Tsering,  mi incammino nel percorso che mi riporterà a Namche Bazaar. Scendo oltre la porta di Pangboche e mi spiace non andar su al monastero a dare un saluto al Lama. Poi, oltrepassato il ponte tibetano, riprendo la salita per Tengboche.
Arrivata su vengo fermata da un trekker russo che vorrebbe offrirmi un sorso di vodka. Ce n’è di matti da queste parti. Mi faccio una chiacchierata. Questo signore è talmente affascinato da questo villaggio che ha deciso di stare qui un po’. “Per salire all’EBC c’è tempo”, mi dice.
Vado all’Himalayan Hotel a salutare Pemba. Caspita, ha messo a posto bene la dining e ora è molto più accogliente, il resto però è come sempre: una ghiacciaia. Quando mi vede mi saluta felice e mi ringrazia un sacco di essere passata a salutarlo. Ci beviamo un tea, mi chiede del mio trekking e chiacchieriamo un bel po’. E’ dispiaciuto che io non possa fermarmi da lui. “Tornerò” gli dico.
Vado a fare un salto alla German Backery a salutare e poi mi incammino in discesa sulla via per Namche.
Arrivata giù, attraverso il ponte, e mi fermo a pranzo al Paradise Lodge a Phunki Thanga  da mamma Sherpa, che mi accoglie a braccia aperte.
Conosco un gruppo di trekkers di Singapore che sta salendo e che vogliono farsi le foto con me.
Dopo un lauto pasto fatto con amore, saluto con la promessa di tornare e riprendo il cammino.
Dopo il bivio arrivo a Chhatiang Kharka, riattraverso il sentiero in salita sotto i rododendri in fiore e risalgo pian piano la mia via. All’altezza del Memoriale di Tenzing Norgay inizia a piovigginare.
 Som avvista un Himalayan Monal fermo su una roccia. E’ coloratissimo col dorso blu e la testa verde risalta sullo sfondo di arbusti. Siamo fermi un po’ a osservarso fino a quando sparisce dietro le rocce.
Finalmente arrivo a Namche, percorro tutto il sentiero superiore ad anello e arrivata sopra il Gompa scendo diretta all’Alpine Lodge da Tenzing. Lui è felicissimo di rivedermi. E io ho subito la mia stanzetta fronte Thamserku.
Dopo una bella doccia calda, scendo giù, e con Tenzing e Som stiamo in cucina a chiacchierare fino all’ora di cena. Tenzing ha ristrutturato la cucina e ha comperato la macchinetta con le cialde della Lavazza per fare l’espresso italiano, mi sa che è l’unico a Namche ad averla. Fantastico.
DA NAMCHE BAZAAR A PHAKDING: 5 ore a piedi inclusi gli stop
Il mattino faccio colazione e poi io e Tenzing ci facciamo delle foto ricordo insieme e ci promettiamo di rivederci fuori stagione a Kathmandu.
Mi fermo con delle donne che stanno facendo il bucato alla fonte pubblica, esco dalla porta di Namche e mi incammino giù per la discesona e faccio conoscenza con un messicano che vive negli USA e che sta ritornando dalla sua grande avventura. Da due anni si è appassionato di montagna, prima col Kilimangiaro, poi l’anno scorso si è fatto l’Aconcagua e quest’anno ha pensato bene che la sua terza montagna avrebbe potuto essere uno dei colossi Himalayani di 8000 metri. E’ arrivato in Khumbu in marzo per scalare il Lhotse. E ora sta tornando giù con la sua guida.
Mi racconta che, arrivato a campo 3, ha iniziato ad avere forti segni di cedimento e non ci stava più con la testa, indi spaventato dal Mal di Montagna, si era fatto convincere dalla sua guida a scendere. In conclusione mi dice: “E per fortuna l’ho ascoltato e sono sceso! Non pensavo che scalare un 8000 fosse così duro”. Io mi sono messa a ridere. La cosa bella è che sto baldo signore di circa 55 anni, non contento, mi racconta che una volta sceso avrebbe preso un volo per Pokhara perché vorrebbe farsi il Circolo dell’Annapurna, dandomi poi appuntamento lì per una cena in compagnia sulla Lake Side.
Ok, qui in Himalaya si conoscono davvero dei bei personaggi.
Mi fermo al view point a salutare l’Everest per l’ultima volta: “Mero Namaskar mero Sagarmatha, ci vediamo presto”.
All’Hillary Bridge faccio un bello stop per far passare i bharya che si fanno il ponte in discesa come i gamberi portando sulla schiena 5 grandi assi di legno che non potrebbero portare altrimenti se non scendendo gli scalini all’indietro. Altri hanno 6 travi che in totale faranno circa 90kg di peso sulla schiena. Io giuro che non riesco a muoverne nemmeno una. Non so come facciano.
Arrivata al ponte prima di Jorsalle, faccio passare una colonna di muli carichi di sacchi di cemento. Pranzo al Waterfall Lodge a Benkar dagli amici di Rob e mi fermo a Phakding per la notte.
DA PHAKDING A LUKLA: 3 ore e mezza a piedi
Effettivamente dividere la tappa di ritorno a Lukla in due parti è davvero una passeggiata. Credo che non mi farò mai più la tirata Namche - Lukla in un giorno solo. Fatto in due è molto meglio.
Arrivati in prossimità dell’ultima collina, guardando il cielo con Som ci preoccupiamo parecchio. Non vediamo aerei in volo, ne sentiamo rumori se non quello dei soliti elicotteri della Rescue che vanno e vengono dal Campo Base a salvare le vite di chi non ce la fa più con l’altitudine e la fatica. Capita anche ai migliori, ma spesso tutto ciò accade perché ci si sopravvaluta e si sottovaluta la montagna i segni che ci da e il suo volere.
Quando arrivo a Lukla ho la brutta sorpresa che temevo. Incontro il messicano, che era arrivato il giorno prima per scendere a KTM e mi dice che i voli di ieri sono stati tutti cancellati. Ora non sa quando riuscirà a scendere. Vado di corsa da Larke all’Ufficio della Sita per assicurarmi di avere posto nel primo volo di  domattina. Lui mi dice che se alle 6.00 decollerà da KTM io avrò posto sul primo volo che scenderà in valle. Speriamo bene e incrociamo le dita.
Vado a farmi un giro al Monastero col mio angelo custode Som e resto un po’ lì tranquilla. Non voglio pensare a nulla. Ho chiuso un cerchio, penso che nella mia vita ho fatto tutto quello che dovevo fare e che potevo fare, forse anche di più, tutto nel nome del bene, senza potermi davvero rimproverare più nulla e ripenso alle parole del Lama del Taktshang Gompa (Tiger Nest) di Paro: “Non ti manca molto all’Illuminazione” e sorrido da sola.
La sera sto a chiacchierare al Buddha Lodge con Som , Larke, suo padre e poi giochiamo con il suo bimbo. I loro sorrisi mi rincuorano tanto. Qui mi sento sempre amata e accolta. Per me è una grande cosa





ARRIVEDERCI KHUMBU VALLEY
Al mattino vado in aeroporto per le 6.20. Tutto tace. Poi, dopo due voli Tara arrivati e decollati, arriva il mio Twin Otter della Sita.
Volo via giù dal precipizio di Lukla seguendo con lo sguardo gli ultimi profili dell’Himalaya, delle mie montagne di questo paradiso perduto sul tetto del mondo.
In Valle mi aspettano tutti. La mia casa è in Nepal, mero ghar Nepalma.