giovedì, gennaio 14, 2016

Khora del Kailash: il mio pellegrinaggio al monte sacro


Da molti anni sogno di partire per la Khora del Kailash, il giro intorno al monte più sacro del mondo, che dovrebbe accrescere di molto i meriti per il mio Karma.
In luglio 2011 la Cina ha chiuso il Tibet al turismo per l’ennesima volta. I Cinesi han festeggiato il 90° della nascita del partito comunista della repubblica popolare cinese e han fatto tutti vacanza facendo le prove per imparare gli inni del partito. Festeggiano anche il 60° dell’istituzione della regione autonoma del Tibet e inoltre il 6 luglio era il compleanno del Dalai Lama, con paure annesse di manifestazioni sovversive da parte di anziani pellegrini, monachelle e monacini. E come è ben noto i monaci e le monache sono “molto rivoluzionari o controrivoluzionari”, a seconda di quale punto di vista si vuol tenere. Sta di fatto che la Cina non vuole che il turista estero veda quello che succede lì, quindi chiude baracca e burattini e chi s’è visto s’è visto, e danno via alle danze della repressione.
Io il 23 luglio a Kathmandu non sapevo ancora se sarei potuta entrare in Tibet, ne tanto meno se mi avrebbero lasciato fare la Khora del Kailash, per l’ottenimento del cui permit presso l’ambasciata Cinese, servono almeno 10 giorni di attesa.

L’ambasciata Cinese di Kathmandu riapriva il 25 luglio e ci sarebbe stata una bella coda di VISA arretrati da approvare o rifiutare. Alla fine sono riuscita a prendere il volo per Lhasa il 30 luglio, con la promessa che il famoso permit ci sarebbe stato consegnato da Pelma a Lhasa. Ho potuto così godermi una settimana di dolce far niente nel clima mite estivo a Bhaktapur, sollazzata dalle premure dei ragazzi del Planet e allietata dalle tagliatelle fatte in casa al ragù e dalle melanzane alla parmigiana di Amrit e Anil. La mia casa in Nepal mi porta sempre “buone cose” e buone persone che spero di poter frequentare anche in Italia non portandole solo nel cuore. Lì trovo sempre qualcuno che mi colpisce e che so che non è stato incontrato per caso.
I miei compagni di viaggio invece, a parte due notti in cui staranno con me qui a Bhaktapur, resteranno al Norbulingka in Thamel, perché a Roberto piace star lì, io però preferisco stare a casa mia. Li raggiungerò lì ogni mattina, molto presto in scooter, in compagnia della nostra guida che, “il caso” ha voluto, fosse colui che fu il mio mentore sulla cultura Nepalese. Che potrebbero desiderare di più i miei compagni di viaggio in Himalaya, che avere me e il mio mentore come guide sul tetto del mondo?
IN VOLO SU LHASA
Il cielo sull’Himalaya è nuvoloso e dall’aereo sta volta ho solo intravisto la punta dell’Everest. Nulla di più.
Passata la catena montuosa degli 8.000 le nuvole diradate lasciano vedere il deserto in quota dell’area di Tsetang e le acque marroni del Bramaputra, il fiume TsangPo, che guarda caso, nasce proprio nella regione del Kailash.
L’aeroporto di Lhasa non è cambiato, grossi jet militari sono parcheggiati in bella mostra e mi riportano subito alla memoria il dove mi trovo. Subito coi piedi per terra, subito alla realtà nuda e cruda.
I controlli all’ingresso sono sempre scrupolosi. I seri militari cinesi, dopo averti guidato all’interno dello scanner, ispezionano tutto. Aprono tutte le valige e gli zaini a caccia di cimeli. Le Lonely Planet e le guide non autorizzate dal governo vengono regolarmente requisite e sequestrate. La Cina non gradisce l’introduzione con la parte scritta da Tenzing Gyatso, il XIV Dalai Lama, ne gradisce suoi ritratti, foto o qualsiasi altra cosa che faccia a lui riferimento o al Tibet come Stato. Il Tibet è solo una regione, è Cina. Punto.

Il cielo è blu intenso e al posto di Lidong trovo invece Tashi all’uscita che aspetta. Lidong, ci dicono, è con un gruppo di cinesi e io malfidata penso che non me lo abbiamo mandato proprio perché lo conosco, ma so che se Pelma ha acconsentito a cambiarmi guida, un motivo c’è, e di certo sarà buono. Non trovare Lidong però mi spiazza, avevo un sacco di cose da chiedergli, da raccontargli. Chi è Tashi? Che pensa? Da che parte sta? Poi scoprirò che lui è un ottimo tibetano dalla parte della causa e che purtroppo Lidong è stato “riformato” e riapparirà nella mia vita, finalmente rilasciato e libero, solo 4 anni più tardi.
Le strade sono tutte asfaltate. Ora c’è una superstrada, con tanto di traforo sotto il monte, che porta da Tsetang, dall’aeroporto a Lhasa. Che progresso.
Passo dalla spettacolare stazione ferroviaria che mi lascia attonita, stupita. Tutta questa modernità, che per carità, nelle infrastrutture ci sta, mi fa però una gran paura, soprattutto per lo stravolvimento ambientale che questo ha comportato. Resto davvero esterrefatta nel vedere l’ambiente circostante Lhasa così diverso dall’ultima volta che ci sono passata.
La città mi è apparsa subito stravolta, diversa, estremamente caotica, più grande, e estremamente cinese. Possibile che in una manciata d’anni sia così cambiata?

Quando arrivo al Barkhor mi prende un colpo. Ci sono posti di blocco ovunque. Che ne è del mercatino tradizionale?
Lhasa è sotto assedio.
Un brivido di freddo mi prende dall’occipite fino giù all’ultimo chakra.
Mi incammino verso il Jokhang attraversando la piazza del Barkhor. Un tempo era piena di colorate bancarelle e ora è vuota, a parte un monumento di fiori finti al centro che inneggia al 60° della liberazione del Tibet (liberazione????) e due grossi gazebo con sotto due truppe dell’esercito cinese i cui soldati sono impettiti come soldatini di piombo, armati fino ai denti.
Dalla finestra della stanza dell’hotel guardo i pellegrini che percorrono la Khora sotto la pioggia. Vecchi e bambini e le truppe che marciano, creano un contrasto inguardabile.
Quando scendo a fare una passeggiata per andare fino al supermercato nella Bei Jing road e mi ritrovo in mezzo a questi nonnini tibetani che fan girare le loro ruote di preghiera salmodiando il mantra Om Mani Padme Hum e le lacrime iniziano a scendere sulla mia faccia e non riesco a fermarle...guardo la polizia, i soldati e i vecchietti che camminano e pregano coi bimbi per mano e questo vortice di assurdità mi stringe un nodo alla gola indescrivibile. Mi esce una disperazione, un’impotenza, un dolore, tutto racchiuso nelle mie calde lacrime che sul mio viso si mescolano alle goccioline della lieve pioggia. Le lacrime del cielo.
I Cinesi hanno paura di sommosse. Ce li vedo i nonni a fare la controrivoluzione...e anche i bambini.
Mi rendo conto che queste sensazioni le ho solo io. Chi non ha visto Lhasa prima, non si può rendere conto di com’era, di quanto è cambiata, di quanto sia peggiorata. Chi non ha mai visto Lhasa la trova cinese, ma resta comunque esterrefatto a vedere l’imponenza del Potala, anche se glielo fanno visitare in un’ora di corsa sapendo che se ti attardi ti portano in caserma per accertamenti, anche se su 1500 stanze ce ne sono aperte solo una ventina e il percorso è fisso, devi stare in fila indiana e “ti devi muovere” e non ti puoi fermare, anche se davanti gli hanno messo un palco talmente grande che dalla piazza di fronte non riesci a farci nemmeno una foto decente. Comunque il grosso dei turisti non è internazionale, ma cinese. Questo vuole la Cina.
Dopo una cena allo Snowland cerco di ammortizzare il normale intontimento dato dai 3600 della città, dormendo, così evito pure di pensare.
La mattina è molto nuvoloso e di ritorno dal Potala, dopo la misera visita che obbligatoriamente dev’essere effettuata in non più di un’ora, passo al market a comperare un po’ di frutta, qualche biscottino e i miei tre litri d’acqua e poi torno in hotel e mi metto a dormire. Non sembro avere la forza di fare altro. Questa Lhasa occupata non riesco a guardarla in faccia.
La serata la passo al Dunya cercando maldestramente di essere allegra. Il Dunya è rimasto l’unico ristorante pub per turisti decente della città. Il Tibet non è fatto per essere ricettivo per l’occidente, ma solo per la Cina. Sto zitta ad ascoltare Roberto che pare essere convinto di fare la Khora del Kailash con soli due Yak, senza satellitare, perché tanto in Cina il cellulare prende dappertutto (?) e ovviamente senza bestie da soma di supporto. Così se succede che qualcuno ne ha bisogno, deve andare a piedi lo stesso. I costi van contenuti.
Ma che gli è successo? Lui non era così, sarà l’altitudine che gli da noia a farlo sragionare? Rimango basita dalle sue parole e non lo riconosco più, ho l’impressione che stia sottovalutando la cosa e che tutto ciò potrà diventare molto pericoloso se qualcosa dovesse andare storto.
Il viaggio volevo farlo da sola. Sono abituata a stare per i fatti miei in Himalaya, ma poi ho ceduto con piacere agli inviti di alcuni amici, tra i quali lui, che desideravano condividere l’esperienza in Tibet con me, che c’ero già stata e avrei, secondo loro, potuto aiutarli a vedere meglio cosa c’era dietro alla patina superficiale di splendore dipinta dalla Cina. Insomma sarebbe stato bello viaggiare ancora insieme.
L’indomani va meglio, me la metto via, sono qui per vedere che succede e che è successo in Tibet. Sono qui per poi poterlo raccontare. E se non la vedessi in questo modo non avrebbe senso restare.
Vado a Drepung.
L’Ospedale Tibetano all’ingresso del complesso monastico è stato smantellato e non sono riuscita a farmi dire dove sia stato trasferito in città.
Parte del monastero è in ristrutturazione. Il grande Gompa, dove è custodito il tangka gigante, è ora una sorta di magazzino e le puje probabilmente si tengono da qualche altra parte.
Un tempo a Drepung c’erano migliaia di monaci, ora ne sono rimasti una settantina. Io personalmente questa volta ne ho visti solo quattro.
La cosa che mi ha lasciata più basita della mia quinta volta a Drepung è stato vedere lo spiazzo davanti al grandissimo Gompa principale. Ora è diventato un parcheggio.
Da qui in cinque minuti di jeep o un quarto d’ora a piedi si va al monastero dell’Oracolo di Nechung.
Qui a suo tempo stava l’Oracolo che veniva consultato dal Dalai Lama prima di prendere decisioni importanti. Nell’ultimo suo periodo in Tibet, quando tutto il popolo in apprensione per la sua incolumità, ne chiedeva l’esilio volontario, l’Oracolo era stato consultato e aveva consigliato al Dalai Lama di lasciare il Tibet perché altrimenti avrebbe avuto destino infausto.
Il monastero è un piccolo gioiello, tanto è pieno di affreschi di pregevole fattura. Qui c’è l’immagine di Avalokiteswara, che io utilizzo come avatar su Tripadvisor e in internet, il Bodhisattva della Compassione, colui di cui è l’incarnazione in terra il Dalai Lama.
E’ stato un piacere immenso ritornare qui e non l’ho trovato cambiato di molto. Era pienissimo di pellegrini.

La visita a Sera invece è stata come andare al circo.
Un tempo, durante le ore del ripasso, si passeggiava silenziosamente nei vari giardinetti tra i monaci intenti nei dibattiti. Un tempo aveva una parvenza di autenticità.
Ora c’è un solo chiostro/giardino adibito allo “spettacolo” e i turisti vengono fatti accomodare in cerchio tutti attorno al limite del giardino, all’interno del quale i monaci entrano, si posizionano e iniziano i dibattiti. Come al circo, con gli ospiti attorno alla pista e i giocolieri e i clown all’interno.
Sono rimasta davvero attonita. Non c’era più nulla di autentico, originale. Nulla.
Il Norbulingka mi han detto essere chiuso per restauro. So che comunque non è un luogo che in cinesi amano far visitare. La residenza estiva del Dalai Lama è il luogo da cui lui è fuggito in esilio in India. Io stessa non ci sarei tornata. E’ da vedere, ma è un luogo troppo pieno di ricordi.
Torno con un rikshaw al Potala, dove un tempo c’era l’ingresso di Lhasa vecchia. C’è una piccola collina, alla cui base ci sono due grossi chorten, dalla cui sommità si ha una delle viste più belle sul Potala. Ora si vede pagare per salirci. Ma la vista ad qui è davvero bella. La sera mi faccio la Khora del Jokhang lasciandomi trasportare dai pellegrini che camminano pregando. Poi mollo tutto e vado a fare la spesa nel quartiere islamico insieme a Max.
INIZIA IL VIAGGIO

La mattina presto ci si avvia in jeep sulla “splendida strada asfaltata”, che un volta era lo sterrato della “Friendship Highway”, la mitica strada che collega Lhasa a Kathmandu attraversando tutto l’altopiano tibetano.
Quando arrivo al Kang La a circa 5.150 metri sopra il Nam Tso, finalmente oltre le bandiere di preghiera che sventolano, vedo l’Himalaya che si innalza in fondo, sopra le sue acque turchesi e qui penso che i paesaggi, la grandiosità di questi scenari e la forza delle montagne non le può cambiare ne modificare nessuno. Ora sono felice di essere qui.
Scendendo giù, sulle rive del lago a 4.700 metri, l’acqua sembra cambiare colore e diventa blu intensa.
Lhasa è oramai a più di cento chilometri di distanza e, lasciato il lago, ci si inerpica nella valle che porta al Karo La sotto l’imponente ghiacciaio dello Yangen Kangsa. Qui vale la pena fermarsi al tornante subito sotto il passo, per la vista spettacolare sul ghiacciaio che va quasi a lambire la strada.

Il prossimo passo è, dal mio punto di vista, uno dei più spettacolari del tragitto. Il Simi La sta sopra il lago che si è formato dopo la costruzione di una diga un po’ più a valle, le cui acque cristalline assumono dei colori da mar dei caraibi. In mezzo al lago, incastonato in una ripida valle i cui monti hanno il colore dell’ambra, c’è un isola rocciosa con una rocca che rende tutto il paesaggio ancora più surreale.
I colori sono così accesi e spettacolari che non sembrano veri. Sulla cima del passo, sopra al lago, migliaia di bandiere di preghiera formano archi colorati nel cielo.
Io resto in sosta qui almeno una mezz’oretta per godermi il panorama e il cambiamento delle variazioni di colore delle acque illuminate dal sole e col cielo che man mano si copre di nubi.
GYANTZE
Quando arrivo a Gyantze mi sdraio nel letto. Sono stanca.
Prima di cena faccio una passeggiata allo Dzong, che è chiuso per restauri, e al villaggio vecchio.
uesta parte di Gyantze è rimasta ancora abbastanza uguale. Per fortuna non vi sono palazzoni di cemento e sembra proprio il vecchio villaggio tibetano di un tempo.
Mi affaccio all’ingresso del Pelkor Chode, oramai chiuso. Lo rivedrò ben bene domattina.
Avevo già alloggiato allo Gyantse Hotel, e non è per nulla cambiato. Il salone d’ingresso è una piazza d’armi e il ristorante pure. La cena è davvero ottima e abbondante. Chow mien, riso, verdure a volontà, carne, pancetta, frutta.
La mattina il Pelkor Chode è già pieno di turisti cinesi.
Il Kumbum è sempre spettacolare. E’ indubbiamente la più bella struttura architettonica del suo genere in Tibet. Conserva al suo interno reliquie e almeno 100.000 raffigurazioni sacre di Buddha e Bodhisattva, all’interno delle 77 cappelle che si snodano su 9 livelli per 35 metri di altezza. Gli affreschi che decorano le innumerevoli cappelle di questo Stupa a più piani sono meravigliosi. I colori sono ancora splendenti nonostante alcuni muri siano attraversati da grosse crepe. L’ultimo piano purtroppo non è più accessibile.
Quando scendo sto un po’ davanti all’ingresso dello stupa a osservare le gente che entra e esce.
Qui a Gyantze ci sono un po’ più tibetani che in altre località famose del Tibet. Molte vecchine e vecchini con gli abiti tradizionali, gli stivaletti di feltro rossi, vengono a rendere omaggio al Buddha e fa uno strano effetto vederli confondersi tra le orde di turisti cinesi che li inghiottono nel loro caos.
SHIGATZE
Il tragitto da Gyantze a Shigatze è piuttosto breve.
In serata sono in questa città che non sarebbe tanto diversa da un’anonima città cinese, se non fosse per il fatto che qui c’è il famoso complesso monastico di Tashi Llumpo, dove viveva il Panchen Lama.
Il monastero è in fase di restauro e molte delle strutture sono impacchettate.
Quando arrivo resto davvero perplessa. All’ingresso c’è una fila di bus enormi, come al casello della barriera di Milano/Agrate, che entra lentamente attraverso l’imponente portale, e dentro la grande corte all’ingresso è diventata un orrendo parcheggio.
C’è una folla impressionante di turisti cinesi che urlano e schiamazzano manco fossero al mercato del pesce. Non posso fare a meno di fare un tuffo nel passato ricordando il silenzio e la pace che c’era qui dentro.

Le cappelle sono affollatissime. Nel Gompa principale stanno facendo la puja e i turisti vengono fatti incanalare in fila indiana a serpentone tra i banchi dei monaci mentre questi pregano e prendono il tea al burro di yak. I cinesi urlano continuamente. C’è un baccano infernale. Non capisco come sia possibile fare una puja in questo modo, ne tanto meno assistervi, quindi esco inorridita lasciando tutto alle spalle.
Ritorno alle cucine. Ricordo che l’ultima volta che ero stata qui stavano cucinando un pentolone di patate, c’era gran fumo ovunque...
Lascio il monastero e vado verso il mercato. Non hanno più i vecchi oggetti di osso intagliati, ne c’è più nessun antiquario. Adesso vendono collanine, teiere, rosari. C’è un bel banchetto che vende i calzari rossi di feltro. Ma per lo più sono solo cianfrusaglie e cinesate di plastica.
Rientro in hotel, dove mi faccio la doccia e sistemo il bagaglio per i giorni a venire prima di darmi a un’ottima cena.
SAKYA E LA VIA VERSO SAGA
Da oggi lascerò ogni piccola comodità, ma io son felice, ho sempre adorato il campeggio. Il primo l’ho fatto all’età di 2 anni e mezzo e si può dire che io sia “nata in tenda”.
La jeep si dirige verso Sakya.
Finalmente quest’anno sono riuscita a trovarlo aperto. Il monastero di Sakya si trova sulla direttiva che congiunge Shigatze a Tingri e precisamente a 25km dalla deviazione sul ponte che sta a 127 km a ovest di Shigatze. Vale la pena fare questa deviazione perché questo monastero è il più particolare e indubbiamente il più bello di tutto il Tibet.
La visita a Sakya va ovviamente concordata in anticipo col tour operator in modo che sia nel pacchetto di viaggio per avere il permesso di visita.
Il Monastero ha due sezioni, la nord, sulla montagna, ormai chiusa alle visite perché in rovina/restauro (sinceramente non l’ho capito) e quella sud che è visitabile e all’arrivo appare in tutta la sua imponenza, con le grandi e alte mura grigie che dominano il villaggio che è piuttosto decrepito e trascurato.
L’architettura di Sakya, tipicamente mongola, è molto diversa da quella dei monasteri che sono nei dintorni di Lhasa e in Tibet. Testimonianza di questo stile architettonico particolare è il Lhakang Chempo o Sibgon Trulpa. Originariamente era una grotta sul lato della montagna è stato costruito nel 1268 da Ponchen Sakya Sangpo e ristrutturato nel sedicesimo secolo. Al suo interno ci sono alcune tra le più magnificenti opere artistiche tibetane, che sembrano essere rimaste intatte nonostante gli anni.
L’area monastica di Sakya copre circa 18.000 metri quadri e l’area del Gompa più grande è di 6.000 metri quadri. Il grosso del monastero però è stato distrutto dalla rivoluzione culturale di Mao.

Sakya è stato fondato nel 1073 da Konchok Gyelpo, che era un monaco Nyingmapa appartenente a una delle famiglie più potenti dello Tsang, e che divenne il primo Sakya Trizin (patriarca).
Questo monastero è stato sede della scuola di Buddhismo Tibetano Sakyapa e il suo nome deriva dal sanscrito Pal Sa Skya o Pel Sakya che vuol dire “Terra Bianca” o “Terra Pallida”. I suoi potenti abati, che si tramandarono il “trono” di padre in figlio come una vera e propria dinastia, governarono il Tibet durante il tredicesimo secolo e parte del quattordicesimo, e dopo la caduta di questi Re, furono adombrati dall’ascesa di una nuova scuola di Buddhismo Tibetano, quella Gelukpa.
Nell’area meridionale, quella visitabile per intenderci, la parte che secondo me è più pregevole è proprio il Gompa principale, anche perché contiene la grande libreria di Sakya, che copre tutte le alte pareti posteriori del Gompa. Qui sono conservati libri preziosissimi coi caratteri scritti in oro, c’è inoltre il più grande manoscritto tibetano esistente che è lungo quasi due metri e largo mezzo. Le pagine di questi libri hanno i bordi miniati e hanno le raffigurazioni di mille Buddha. Molti di questi libri sono rilegati in ferro e furono fatti sotto l’impero di Kublai Khan e offerti al lama Phagpa durante il suo secondo viaggio a Pechino. Nel Gompa è inoltre conservata una conchiglia gigante con le spirali che girano da sinistra a destra (in tibetano Ya Chyü Dungkar) che fu regalata dall’Imperatore Kublai a Phagpa. Questa conchiglia viene suonata solo dai Lama previa offerta fatta dal richiedente (un tempo erano necessarie undici once d’argento) in atto di preghiera e, farla suonare ovviamente contribuisce a far accrescere i meriti del fedele sulla terra.
La sala di preghiera è mastodontica e ha delle colonne enormi e meravigliose, uniche nel loro genere in tutto il Tibet e ha delle statue di Sakyamuni che contengono reliquie dei più importanti maestri Sakyapa.

Nel 2003 da una parete alta dieci metri e lunga sessanta è stata rinvenuta sigillata al suo interno una libreria di 84000 pergamene che gli studiosi della Tibetan Academy of Social Sciences stanno ancora catalogando. Oltre a trattati religiosi contiene anche opere letterarie, storiche, filosofiche, trattati di astronomia e matematica e arte dall’inestimabile valore. Gli studiosi pensano che sia rimasta inviolata per centinaia di anni.
Attorno al Gompa c’è il percorso della Khora con le ruote di preghiera inglobate all’interno delle enormi mura.
Nella piazza principale, davanti al Gompa c’è un negozietto e altre due spettacolari sale di preghiera, tra cui la cappella di Manjushri, che ha bellissime statue della dea e di Sakyamuni, il palazzo di Tara e il palazzo Puntsok.
E’ possibile fare le foto solo all’esterno. Per fotografare dentro i Gompa va pagata una tassa piuttosto onerosa.
Erano anni che speravo di riuscire a visitare questo complesso monastico e finalmente ho avuto la grande emozione di poterlo fare.
Andiamo anche a Shalu, unico monastero che ha te tegole di ceramica come nelle pagode cinesi. Meraviglioso. E da qui ci muoviamo verso Saga.

Il tragitto verso Saga è piuttosto lungo, passiamo oltre Lhatse, dove seguo con lo sguardo la strada, ora asfaltata, che volta a sinistra verso l’EBC.
Il nostro primo campo tendato è poco distante da Saga, di fronte a una grossa pozza d’acqua che pare più un laghetto. Tutto attorno il niente, strada a parte.
Sotto le colline, e colline si fa per dire, visto che siamo già oltre i 4000, c’è un piccolo assembramento di tende di nomadi tibetani, che non mancano di venire a curiosare e a dare il benvenuto.

Faccio amicizia con Pema, una splendida ragazza che porta una mascherina sul viso. Poi arrivano la madre, il fratello di Pema e sua figlia, una ragazzetta con gli occhi vispi che si diverte a fare la curiosa con la mia macchina fotografica, per poi scappare quando faccio il gesto per chiederle una foto. Alla fine facciamo molte foto tutti assieme. E’ bello perché, anche non capendoci a parole, loro l’inglese non lo sanno e io non so il tibetano, ci si capisce al volo. Loro riescono a spiegarmi chi sono, chi è mamma, nonna, zia, figlia o  
cugina. Loro hanno una mandria di Yak e di capre e vivono di questo.
Riesco benissimo a integrarmi con queste persone, e mi rendo conto che mi è del tutto naturale. Mi invitano a cenare nelle loro tende, ma non posso lasciare gli amici, anche se avrei voluto un sacco andar via coi tibetani.

La mia tenda è proprio una tendina, sembra molto fragile, guardando l’ambiente circostante. Metto dei sassi tutti attorno al suo perimetro tentando di tenerne insieme i lembi che svolazzano al vento.
Nuvoloni carichi di pioggia intanto si avvicinano minacciosi e io mi riparo nella tenda cucina, gustandomi un’ottima cena.
Al seguito ho un camion con tutto il necessario per allestire cucina da campo, coi viveri per i giorni di trekking e le tende.
I due cuochi sono davvero bravi. Non ci sono parole. Grazie Pelma!
da PUNSUM a DARCHEN

La mattina la jeep si dirige verso Punsum.
Passo per la zona di Paryang, uno spettacolare deserto di dune in quota. Qui è meraviglioso. Un silenzio e una pace unica. Qui il Tibet è presente con la sua natura incontaminata. Sulla sabbia scrivo “freedom”. Il vento pian piano cancella la mia scritta. I granelli di sabbia cadono dai bordi delle lettere nei solchi della scrittura, andando a coprire la libertà. Dov’è la libertà in Tibet? Qui è rimasta libera solo la forza della natura.

A Punsum il campo viene allestito in riva a un fiume. Sono talmente vicina all’acqua che ho paura che la notte, con la pioggia, si allaghi tutto. Fortunatamente non accade.
Il giorno dopo l’ultima tappa è Darchen.
A fine mattinata, dopo aver passato il Mayum La a oltre 5200metri, arrivo nei pressi del Manasarowar.
Qui è pieno di bandiere di preghiera che sventolano a sinistra e a destra della strada. Da un lato, le acque del lago finiscono alle pendici del Gurla Mandata, dall’altro, la steppa si perde alle pendici della piramide del Kailash, che finalmente appare scintillante e bianco all’orizzonte nascosto solo dallo sventolare delle bandierine colorate.
Il mio autista si ferma in un punto panoramico strepitoso.

Da qui la piramide Sud del Kailash è imponentissima.
Non ho mai visto una montagna così strana. Sembra un gigantesco dente aguzzo. Dalla cima ha una grossa incrinatura che percorre tutta la parete dall’alto in basso perfettamente dritta. Questa spaccatura che è visibile nonostante sia ricoperta di neve, è attraversata da altrettante spaccature orizzontali, perfettamente perpendicolari a essa e perfettamente dritte. Non ho mai visto nulla di simile e mi riesce difficile credere a quanto a volte la natura sia geniale, artistica, perfetta, questa montagna sembra davvero sia stata fatta da uno scultore.
La conformazione della montagna, secondo me, si è prestata benissimo alla creazione di leggende, è stato facile per me, solo guardandola, capire come sia stato naturale che attorno al Kailash si fosse creato l’alone di mistero e di misticismo che permane tutt’ora. Solo un posto del genere poteva essere dimora degli Dei Hindu e del Buddha.
IL KAILASH
Il mito di questa grande montagna, parte dell’Himalaya tibetano, “l’ombelico del mondo”, da cui nascono grandi fiumi che portano la vita nei territori che attraversano, è diffuso in tutta l’Asia e trae origine dall’epica hindu, dove si parla del monte Meru, la dimora degli dei, come di un’immensa colonna alta 84.000 leghe; “la sua vetta bacia il cielo e le sue pareti sono d’oro, cristallo, rubino e lapislazzuli”.
Questi racconti hindu situano il monte Meru in un punto imprecisato dell’altissima catena dell’Himalaya, ma col tempo il Meru è stato identificato con il monte Kailash, 6714 metri di montagna.

Il collegamento della leggenda con la montagna non è casuale. Dal Kailash leggendario nasce un fiume che sfocia nel fiabesco lago Manasarovar dal quale, a loro volta, scaturiscono quattro fiumi mitici che scorrono in direzione dei quattro punti cardinali.
In realtà, benché nessun fiume sgorghi proprio dal Manasarovar, esistono quattro fiumi che dal monte scorrono, più o meno verso i punti cardinali ed il Kailash ha in effetti, quattro distinti versanti rispettivamente formati, secondo la leggenda, da oro, cristallo, rubini e lapislazzuli.
Il Kailash sorge al centro di un’area che è la chiave del sistema idrografico dell’altopiano tibetano e dalla montagna scendono in direzioni diverse l'Indo (a nord), il Brahmaputra (Yarlung Tsangpo, a est), il Karnali (un affluente del Gange, a sud) ed il Suttej (a ovest).
Questi fiumi scorrono, secondo la leggenda, fino ai quattro angoli del mondo e lo dividono simmetricamente in quattro parti uguali.
Sud, lapislazzuli, Mabja Kambad (fiume che sgorga dalla bocca del pavone) Karnali
Ovest, rubini, Langchan Kambab (fiume che sgorga dalla bocca dell’elefante) Suttej
Nord, oro, Seng-ge Kambab (fiume che sgorga dalla bocca del leone) Indo
Est, cristallo, Tamchog Kambab (fiume che sgorga dalla bocca del cavallo) Yarlung Tsangpo (Brahmaputra)
Nascosto dietro le montagne che si ergono a sud e ad est della Sichuan – Tibet Highway, il fiume Yarlung Tsangpo (Brahmaputra) compie alcune spettacolari inversioni a U e si getta con una serie di stupefacenti cascate in quella che molti sostengono essere la gola più profonda del mondo.
 
Delimitata ai due lati dalle moli imponenti del Namche Barwa (7756 metri) e del Gyala Pelri (7151 metri), la gola raggiunge una profondità record di 5382 m (quasi tre volte quella del Grand Canyon americano) ed ha una lunghezza di 496 km per una larghezza di appena 27 km.

In un punto il fiume si restringe a soli 20 metri prima di sfociare nella pianura dell’Assam con il nome di Brahmaputra.
La regione in cui scorre questo fiume è una delle zone meno esplorate del mondo. Una terra popolata da cobra reali, leopardi, panda rossi, scimmie, tigri, e il cui paesaggio è caratterizzato da cascate e foreste vergini.
Attualmente è vietato l’accesso a questa zona strategica di confine, mentre i cinesi possono già attraversare la regione a piedi da Pe e da Gyatso.

Il monte Kailash, con i suoi 6714 m, non è la cima più alta della regione ma per il suo aspetto massiccio è diverso dalle altre montagne.
Le sue quattro pareti a strapiombo sono rivolte verso i quattro punti cardinali e sul versante meridionale, come descrivevo prima, si apre un famoso lungo crepaccio verticale caratterizzato, nel punto mediano, da una linea orizzontale di strati rocciosi. Questa specie di cicatrice somiglia a una svastica, simbolo buddista di forza spirituale, ed è l’aspetto che ha contribuito non poco alla leggenda del Kailash.
Il nome Kailash significa "cristallo", ma la Montagna ha anche molti altri soprannomi, come "gioiello delle nevi" e "protettrice delle buone azioni".
In tibetano è chiamata Kang Rinpoche, cioè “prezioso gioiello di neve”.
Il Kailash è da tempo venerato da sei religioni: induismo, buddismo, giainismo, bon, zoroastrismo e paganesimo slavo.
Per gli hindu è il regno di Shiva, il Distruttore e il Trasformatore e per i buddisti è la dimora di Demchok, emanazione irata di Sakyamuni.
I giainisti indiani venerano la montagna come il sito in cui raggiunse la liberazione il primo dei loro santi.

Per l’antica religione bon del Tibet, il Kailash era il sacro Yungdrung Gutseg (montagna della svastica a nove piani), sul quale scese dal cielo Shenrab, il fondatore del bonpo.
Non è documentato alcun tentativo riuscito di scalare questa montagna nella storia contemporanea ,anche perché attualmente salirvi è anche proibito dalla legge, perché molti credenti vi vedrebbero una profanazione.
Secondo le leggende, la cima di questo Monte è il Paradiso Terrestre, la suprema beatitudine, da cui provengono le anime degli uomini prima della loro nascita, e dove ritornano dopo la morte del corpo, nella loro liberazione finale.
La terra sulla cima della montagna è descritta come fragrante e multicolore.
Proprio sulla cima secondo la leggenda esisterebbe una fontana artificiale a forma di piramide, dai cui quattro angoli si dipartirebbero i quattro fiumi.
Da questo monte, secondo la leggenda, si dipartono anche tutti i più diversi universi fisici e spirituali.
La porta d’accesso al monte Kailash è il paesino di Darchen a 4600 metri circa, che è anche il punto di partenza della Khora: il circuito di 52 km attorno alla montagna.

Darchen sembra un villaggio di frontiera. Poco più di una baraccopoli.
Bimbi bellissimi, con le gote brune dal sole, corrono dietro a copertoni vecchi tenendoli in equilibrio con dei bastoncini, mentre forti folate di vento alzano in cielo i foglietti di preghiera assieme ai sacchetti di plastica e alla spazzatura disseminata ovunque in giro, creando un mix sacro, profano e trash che non mai visto in altre parti del mondo.
Faccio una passeggiata nella cittadina e presto mi rendo conto che a Darchen una guest house vale l’altra. Sono tutte basiche. I letti sono buoni, di legno, con dei materassi belli duri, ma sono infestati ovunque da cimici. Io decido di dormire sul pavimento della cucina insieme ai driver e a Tashi e a alcuni compagni di viaggio. Userò il materassino della tenda e il mio sacco a pelo e mi metterò proprio dietro la stufa.
LA KHORA DEL KAILASH
da DARCHEN (4700m) a DIRA-PUK (5000)m
circa 8 ore a piedi per circa 20km

Al mattino si inizia la Khora.
I buddhisti e gli hindu camminano intorno al Kailash in senso orario, mentre gli adepti della religione di Bon, l’antica religione pre-buddhista del Tibet, tutt’ora diffusa nelle aree più remote del paese, fanno il percorso in senso antiorario.
Un tibetano buddista normalmente compie il percorso in un solo duro giorno di cammino, ma alcuni tibetani rendono la Khora molto più difficile continuando a prostrarsi per l’intero tragitto: un circuito di prostrazioni continue che richiede circa tre settimane.
I pellegrini hindu, che in più devono compiere un’immersione rituale in un lago gelato lungo il cammino, in genere portano a termine il circuito in tre giorni, pernottando negli accampamenti allestiti per loro, vicini ai monasteri di Dira-puk e Zutul-puk.
Arrivati nei pressi del primo punto di prostrazione, a Tarboche, la vista è spettacolare. Metri e metri di bandiere di preghiera, stupa che si stagliano sui ghiacci della parete sud della montagna sacra. Non fa caldo perché siamo ancora all’ombra della montagna, e dopo che Tashi ha organizzato il carico del campo tendato sugli 8 yak, iniziamo a camminare lungo il sentiero della Khora.
Decidiamo di non aspettare i due nostri pellegrini che avevano deciso di intraprendere il percorso più lungo, presi da una folgorazione mistica o da una piccola turba, son partiti a piedi dal villaggio, mentre noi, coi carichi siamo arrivati fino a poco prima di Tarboche con le jeep. E’ già tardi e abbiamo 20 kilometri a piedi da fare, perché farne 4 o 6 in più?
La salita è molto dolce e pian piano arriva il sole a scaldarmi.

La vista sul Kailash è meravigliosa. La sua Piramide a forma di canino si staglia nel cielo blu e brilla di bianco ghiacciato. La valle è brulla, sassosa, e le montagne circostanti hanno tutte le sfumature delle varie tonalità del marrone.
Il silenzio è totale, l’aria pulita, rarefatta, perfetta per riempire a pieno i polmoni.
Ogni tanto il Kailash scompare dietro qualche sperone di roccia e quando riappare cambia faccia. Sì ci sto proprio girando attorno.
Sembra non ci sia anima viva, fino a che incontro dei pellegrini Bon che stanno finendo il loro percorso facendo la Khora in senso antiorario, come vuole la loro tradizione. Non sembrano così affaticati, sorridono e salutano mentre fanno girare le ruote di preghiera verso il cielo. Due di loro stanno facendo il percorso con le prostrazioni. E’ impressionante.
Poco dopo un gruppo di pellegrini indiani mi supera. Sono a cavallo, seguiti da due sherpa nepalesi a piedi. Gli indiani sono bardati con pesanti tute da sci e con tanto di passamontagna e alcuni di loro tengono in mano una bomboletta di ossigeno. Io sono molto perplessa, sono coi pantaloni da trekking leggeri e la maglietta di cotone a maniche lunghe perché ho paura di scottarmi, tanto batte il sole, ma se potessi mi metterei in canottiera.

Di nuovo nessuno all’orizzonte, la strada pian piano curva e gli indiani a cavallo sono spariti dietro l’ultimo pendio. Tashi è da un po’ che è andato avanti da solo, deve arrivare al luogo stabilito per occuparsi dell’allestimento del campo.
Mi fermo a bere. In quota è necessario bere molto e io già bevo un sacco di mio. Rimango ipnotizzata dal ghiaccio della punta del Kailash e seguendo con lo sguardo i riflessi nel cielo arrivo a guardare il sole. Attorno al disco giallo di luce uno splendido arcobaleno solare fa brillare il cielo e mi lascia a bocca aperta per la meraviglia. L’ultima volta che ho visto un fenomeno simile è stato allo Tso Kar nella Rupshu Valley in Ladakh. L’arcobaleno solare è, per le popolazioni himalayane, un segno di buon auspicio mandato dagli dei.

Vederlo durante la Khora è decisamente un buon segno, porterà bene, farà sì che la Khora sarà propizia. E’ come una sorta di benedizione mandata dal cielo. Con queste premesse non potrà andare male. Ogni cosa seguirà il giusto corso.
Verso l’ora di pranzo mi fermo in corrispondenza di un gruppo di chorten fatti con tante piccole pietre. Due fette di pane da toast, un uovo sodo, uno snack cinese al cioccolato. Poi riprendo la marcia.
Nel primo pomeriggio incontro nuovamente il gruppo di indiani. Uno di loro è stramazzato al suolo svenuto, cadendo da cavallo. Ogni anno molte persone di nazionalità indiana muoiono sulla Khora del Kailash per il mal di montagna acuto e per loro è un onore. Salendo via terra da Kathmandu, arrivano in quota troppo velocemente e i loro fisici non hanno tempo di acclimatarsi. Questo per molti può essere fatale.
A pomeriggio inoltrato, sempre senza più nessuno all’orizzonte da ore, oltrepasso un campo tendato fisso, dove volendo si può rimediare un tea caldo. Qui all’orizzonte, verso valle, vedo qualcuno che agita le braccia al cielo. Non ci posso credere. Riconosco l’amica di Roberto. Cacchio siamo a 4.900 metri, non ho voglia di scendere per poi risalire di nuovo. Ma torno indietro per verificare che succede. Succede che l’AMS non perdona, e non perdona chi corre, chi prende sottogamba l’altitudine, chi prende il trekking come una corsa o una sfida, chi non sa ascoltare il suo corpo ne i consigli umili di chi gli è amico. Già non stava bene a Lhasa, da allora soffiva di mal di testa, vane le mie domande: "ti serve aiuto? Come va? Che ti senti?" Ma mi ha sempre fatto capire di farmi i fatti miei. Stamattina l’ho pregato: "Per favore vieni con noi e evitati 5 km in più, la Khora è già lunga di suo".
Più tardi verrò a sapere che la notte prima del trekking ha dormito a tratti e male, ha bevuto sette litri d’acqua, ha sovraccaricato tutto il sistema circolatorio, e si è imbottito di Diamox non seguendo il protocollo consigliato. Ma lui stava bene, non c’era nulla, stava benissimo. Non ha voluto dirmi nulla. Incosciente! Perché?
Ora, in evidente stato di confusione mentale, con gli occhi sbarrati, il respiro corto e ansimante mi dice: “forse è meglio se scendo. Scendi con me?” Io sono molto preoccupata ma non posso scendere. Lui mi guarda arrabbiato, vorrebbe sul serio che tornassi con lui, e anzi vorrebbe che tornassimo tutti.

Con lui c’è la sua compagna, una signora che non ha mai viaggiato fuori dall’Europa, ma che si è dimostrata essere fisicamente molto forte e con lui un sacco presente. Ora è ovviamente in pena per le condizioni dell’amico.
Gli dico: “No, io non scendo, non sei solo, c’è lei con te. Tashi è avanti a allestire il campo, gli altri quattro nostri amici vogliono proseguire, ed è ingiusto che per la malattia di uno, debba pagare tutto il gruppo. Non sarebbe giusto, anche perché conoscendoti, so che anche tu non ti saresti mai fermato per nessuno, e saresti andato avanti. Non sei solo, hai una persona adulta che ti è accanto e che ti accompagnerà giù a Darchen.” Non dimenticherò mai il suo sguardo.

Quando è stato organizzato il tutto, lui non ha voluto un animale da soma in più, certo sarebbe costato, ma ora sarebbe stato utile. Infine, sapendo che già altre volte aveva avuto episodi di Mal di Montagna Acuto in altitudine, non ha neanche chiesto a Tashi di portare un satellitare. Che aveva in testa? Al Kailash i cellulari non hanno campo. Non so cosa sia successo nella sua mente quest’estate, non è mai stato così “leggero”, incosciente, avventato, da mettere a rischio la sua vita e da dare peso agli altri con l il suo modo di agire. Adesso bisogna cercare un cavallo.
L’ultimo posto di sosta si trova a una mezz’ora di discesa. Lì ci sono cavalli e qualcuno col satellitare.
Ci dividiamo. Mi spiace un sacco per lui, sapevo quanto ci tenesse, contro tutto e tutti, a fare questo trekking. Mi ha pregata di esserci, nonostante sapesse che io avrei voluto farlo da sola, perché sapeva che io lo avrei aiutato nell’organizzazione, visto che in Nepal e Tibet io sono di casa. Ora vedrò di raggiungere Tashi. Ci sarà qualcuno con un satellitare su al campo, e non mollerò il resto del gruppo, in modo tale che tutti possano continuare il trekking e non decretare la fine della loro vacanza. Lui e la signora scenderanno pian piano. Noi continueremo.

Risalgo il sentiero verso i ragazzi e li raggiungo, ovviamente sono felici che io abbia deciso di accompagnarli e mi dicono che non avrebbero proseguito senza di me e comunque non sarebbe stato giusto tornare. Proseguiamo verso Dira-Puk allungando il passo. Per fortuna dopo circa un quarto d’ora Tashi appare e ci viene incontro. Il campo è vicinissimo. Racconto l’accaduto al mio nuovo e fidato amico tibetano e lui si affretta a raggiungere il primo posto possibile dove recuperare un telefono per allertare Darchen che c’è un trekker che sta tornando indietro con seri sintomi di Mal di Montagna.
Tashi riesce a gestire il recupero con velocità e fa mandare una jeep incontro ai nostri due compagni. Purtroppo non riusciranno a incontrarla, non capisco come, visto che non c'è anima viva e la strada è una sola, e assolderanno un altro autista che li porterà a Darchen.

Arrivati al campo, a circa 5.000 metri, il cielo si sta rannuvolando e un forte vento inizia a far sventolare i teli delle tende, tutte già montate dai nostri amici tibetani.
La luce diffusa tra le nubi plumbee è gialla. Si sta avvicinando l’ora del tramonto.
Dispongo dei grossi sassi tutto attorno al perimetro della mia tenda per fissarne meglio la copertura. Il vento inizia a essere davvero fastidioso.
I due cuochi sono già ai fornelli. Io vado al ruscello a lavarmi le mani e poi ispeziono l’area nei dintorni del campo per individuare il posto ideale da destinare all’uso toilette. La mia tenda, proprio davanti all’ingresso ha una grossa buca. Spero di ricordarmene domattina quando uscirò all’alba dalla tenda.
Mi siedo sull’erba rigida davanti alla tenda cucina, sorseggiando un ottimo black tea e sgranocchiando i biscottini. Davanti a me pascolano gli yak. Chiacchieriamo tra noi e Bruno ci informa che ha deciso di scendere. Non si sente in forza a sufficienza per continuare, ha paura di stare male. Quindi, accordato un cavallo con Tashi, lo salutiamo con dispiacere, ma rispettiamo la sua scelta ovviamente.
Poi con il tramonto arriva il freddo e tutto si fa arancio sotto i nuvoloni blu.
La cena è un ottimo riso da accompagnare o con zucchine trifolate, o con un umido di pollo, o con broccoletti e carote e cipolle, del chapati caldo, poi tanto tea bollente e biscottini. Dopo una lunga chiacchierata vado in tenda mi infilo nel sacco a pelo e mi metto a dormire. Domattina la sveglia sarà molto presto perché mi aspetta la tappa più impegnativa del trekking. La salita al Dolma La.
da DIRA-PUK (5000m) a ZUTUL-PUK (4900m) attraverso il DOLMA LA (5680m)
10 ore a piedi per circa 20km

La notte piove e al mattino il cielo è molto grigio con le nuvole basse.
Dopo una buona colazione a base di frittata, pane e marmellata, biscotti e tea, attraversiamo il ponticello e partiamo subito in salita. In tanto Tashi è riuscito a informarsi che i nostri due amici sono giunti alla Guest House di Darchen e sono stati dal medico. ora siamo più tranquilli.
Il sentiero zigzaga sulla montagna sassosa ed è pieno di pellegrini e bestie da soma che avanzano di buona lena verso la cima.
C’è odore di ginepro bruciato ovunque e il fumo di questo arbusto, che viene usato in offerta agli dei, fa arrossire gli occhi e pizzicare la gola.
Alcune nonnine sorridenti mi superano con passo svelto lasciandomi stupefatta. Mi viene da ridere mentre le saluto dicendo loro “tashi delek”, anche i bambinetti, probabilmente loro nipotini, sgambettano sorridendo alla faccia mia. I volti che incontro non sembrano segnati da fatica, tutti sono sorridenti, tutti salutano.

C’è una serenità diffusa su tutto il percorso. E’ meraviglioso. Tutti son qui per fede, per acquistare meriti che consentiranno loro il raggiungimento dell’illuminazione. Sono felice di far parte di questo pellegrinaggio e mentre salgo il sentiero ripido e scosceso verso il Dolma La ripenso a quando, da ragazzina, feci a piedi il pellegrinaggio alla Madonna di Monte Berico con le mie compagne di scuola nella giornata dell’8 settembre.
Lo facemmo per puro spirito di avventura, perché già allora non avevamo gran fede. Partimmo alle quattro e mezza di mattina dal paese con la torcia in mano per arrivare in cima al colle vicentino in tempo per la benedizione nel santuario. Ricordo che, arrivati a metà strada già qualcuna di noi allungava la testa per vedere se per caso ci fosse stato qualche autobus di passaggio. Quando arrivammo su io mi feci un bel sonno appoggiata a una colonna della chiesa. La giornata la concludemmo giù in città al parco giochi a divertirci.
Mentre divago con i ricordi, ho un bel sorriso stampato in faccia e penso che tutte le culture, religioni ,alla fine sono molto simili tra loro, cambiano i nomi con cui le persone chiamano il Dio, ma Dio, Buddha, Rama, Allah, Javhè sono tutte parole che significano la stessa cosa, che ci piaccia o no.
La salita è piuttosto ripida e ci vogliono circa un paio d’ore per arrivare in cima al passo con calma.
Passiamo un grosso masso che ha la forma di un cavallo ed è pieno di Khate sacre e bandiere di preghiera.

Arrivati al passo è un tripudio di gioia. La La Gyalo! Centinaia di foglietti di preghiere che riportano il cavallo del vento, vengono lanciate al cielo come tanti coriandoli sacri.
Metto le mie bandiere di preghiera anche io, dedicandole a coloro che mi hanno chiesto benedizioni e a coloro che hanno la fede. Poi mi siedo su un masso a guardare le processioni di fedeli che mi circondano.
Il Dolma La, coi suoi 5680 metri di altezza è uno dei passi più sacri della Terra e qui la sacralità la si sente tutta, con tutta la sua forza, anche se non si è credenti, non può lasciare indifferenti.
Finalmente parlo con Tashi e tutto gli esce fuori come un fiume in piena. Oramai si è scoperto e siamo diventati buoni amici, ma fin ora non si era ancora pronunciato sulla questione tibetana. Stiamo mezz’ora a parlare e ne sono felice, poi iniziamo a scendere con gli occhi lucidi per l’emozione e felici.
La discesa è subito bella ripida e sotto di noi tre piccoli laghi glaciali rompono col loro colore verde azzurro la monotonia del colore beije dei sassi in quota. Attraversiamo il lago glaciale e i lembi del ghiacciaio che ha dei crepacci tutt’altro che rassicuranti e proseguiamo verso il basso in compagnia di due splendide pellegrine tibetane.

Arrivati al Campo Tendato di sosta, subito alla fine della lunga discesa, a circa 5000 metri facciamo una lauta merenda. Taralli, parmigiano, biscotti e tea bollente. Io inizio a togliermi i sovra pantaloni che avevo messo al mattino e resto coi leggins e la solita maglietta di cotone.
Qui si apre una valle ricoperta da muschi e attraversata da innumerevoli ruscelletti e ci sono campi interi di stelle apine. Il sentiero è sempre ben evidente.
Ci fermiamo a mangiare qualcosa sulla via, seduti su sassi o sull’erba. Tutti avremmo voglia di stenderci a dormire, ma non si può, dobbiamo arrivare nei pressi di Zutul-puk.

Il sentiero sembra non finire mai: “Tashi dov’è il nostro campo?” e lui:” E’ dopo quelle colline laggiù”, ma dopo le colline ce ne sono altre, e poi altre  ancora e il campo non si vede.
Quando svolto l’ennesima curva che costeggia l’ennesima collina e vedo le tende, non dico che la faccio di corsa, ma aumento il passo e, dopo aver tolto gli scarponi, mi accascio modello pelle d’orso sul materassino dentro la mia tenda. Non ho la forza di fare altro.
Dopo una mezz’ora arriva Tashi che mi sveglia con una tazza di tea caldo. Qui è bellissimo, un prato verde senza fine punteggiato dagli yak che brucano pian piano. Visti così sembrano quasi docili. Non li conoscessi…
Un’altra ottima cena preparata dai nostri cuochi ci allieta l’ultima serata di trekking. Domani per fortuna saranno solo una dozzina di kilometri.
IL RITORNO A DARCHEN
3 ore a piedi soste incluse per circa 12km

Quest’ultima giornata di trekking non è altro che una piacevole passeggiata in discesa  fino a Darchen, costeggiando in alcuni tratti un bel burrone sul fiume.
Tutto fila liscio e in tre orette e mezza, soste incluse, abbiamo concluso il nostro trekking
Arrivata al villaggio incontro i compagni che sono scesi e non hanno fatto la Khora. Bruno è arzillo e felice comunque di aver fatto anche solo una giornata di trekking, Roberto ha ancora il viso segnato e stravolto, ma sostiene di stare benissimo. Lo spero davvero per lui. E’ arrabbiatissimo con me, mi dice la sua compagna, ma già lo so di mio.
Vado diretta ai bagni pubblici con Max a farmi una bella doccia bollente a pagamento. Poi mi metto nel cortile della guest house in un punto riparato dal vento a asciugare i capelli al sole. Dopo un pranzo approssimativo in un ristorantino del villaggio carichiamo le jeep e il camion e ci dirigiamo sulle sponde del lago Manasarowar per allestire il prossimo campo.
Qui è semplicemente meraviglioso.

Piantiamo le tende proprio in riva al lago.
Poi alcuni di noi si piazzano col materassino sull’erba a godersi la vista mozzafiato: da una parte il Kailash e dall’altra il blu del Lago sacro. Altri salgono sulla collina per vedere il panorama dall’alto, mentre i nostri cuochi allestiscono la tenda cucina e preparano la nostra cena.
Il meteo non tiene e prima del tramonto minacciose nuvole avanzano dall’altro versante del lago scaricando lampi, saette e tuoni in acqua all’orizzonte e colorando le montagne di rosso e ocra.
Non ho mai visto dei colori simili e ne resto totalmente incantata, riuscendo a fare tra l’altro delle splendide foto. Siamo in un luogo magico, semplicemente meraviglioso.
Ceniamo in tenda e poi tutti a nanna presto. Appena cala il sole, il freddo in quota si fa sentire.
DI NUOVO A SAGA
La mattina successiva dovremmo ripartire per una tre giorni di jeep che ci porterebbe al Campo Base Everest Nord, a Rongpuk, il villaggio dove io mi sono definitivamente innamorata dell’Himalaya, circa una decina di anni fa. Facciamo colazione tutti insieme.

Purtroppo Roberto si sente male. Non respira più, e quando usciamo dalla tenda cucina lo vediamo accasciarsi al suolo. Tashi gli da la bombola d’ossigeno, ma dobbiamo correre all’Ospedale. E il più vicino, si fa per dire, è a Saga, e sono 8 ore di jeep di corsa, senza neanche sostare per una pipì.
Lui viene ricoverato e noi piantiamo il nostro campo tendato al tramonto sotto una pioggia battente.
Dopo cena mi faccio portare in jeep dal nostro driver all’ospedale a vedere come va Roberto.
La sua compagna pernotterà lì. Lui è in AMS, e mi fa una tenerezza assurda mista a rabbia. Mi chiede di aiutarlo e di prendere in mano la gestione del gruppo per andare all’Everest. I medici di Saga dicono che lo terranno in ospedale sotto ossigeno fino a che riusciranno a concordare un trasferimento a quota più consona a Zhangmu al confine col Nepal dove lo recupereremo a fine viaggio, sempre se non si sarà fatto rimpatriare.
Gli era stato detto di scendere, ma ogni consiglio è rimasto inascoltato, anche quelli dati da Europe Assistance che, già all’arrivo a Darchen, quando si era sentito male nel tratto di cammino della Khora, volevano rimpatriarlo. Va ben, oramai è andata così. Io gli darò una mano di certo, ci mancherebbe altro, poi non possiamo lasciare i ragazzi così.
Lo lascio in ospedale, un sacco preoccupata, ma consapevole che per come stanno le cose, io non posso fare nulla per lui.

Torno al campo dai ragazzi e li informo sulla situazione.
Li informo inoltre che, se sono demotivati, non saranno obbligati a andare fino a Rongpuk. Tra l’altro col meteo che abbiamo sarà pressoché impossibile vedere l’Everest. Loro si consultano e decidono di proseguire comunque. Vogliono andare al Campo Base, anche solo per dire di esserci stati. Li capisco benissimo, lì è un sogno.
Ricordo le mie impressioni quando più di 10 anni fa andai lì per la prima volta: “l’Everest, che quando l’ho visto spuntare tra le nubi con la sua vetta arancio dal tramonto al campo base, ho pianto, come una bambina, l’ho rincorso, sulla cima del monastero di Rongpuk, l’ho accarezzato con lo sguardo, l’ho visto diventare rosso, rosa, viola, i suoi ghiacci ardere al sole del tramonto, il freddo, il gelido vento a 5000 metri che ti taglia le guance, ti gela le dita delle mani, il mio fiato tremendamente corto, l’oppressione al cuore per l’emozione. Niente ho mai visto di più grande, unico, meraviglioso. Mi sono persa per 2 ore ad osservarlo immergersi nella notte.”
SULLA VIA PER L’EVEREST
Il mattino dopo quindi andiamo a Tingri, dove pranziamo.

Non la trovo molto cambiata dall’ultima volta, è sempre il solito postaccio che però gode di una vista superba sull’Himalaya, spaziando dal Makalu, al Cho Oyu fino all’Everest, peccato però che sta volta ci siano nuvole basse, e che non si veda nulla.
Mi spiace molto per i ragazzi perché son quasi certa che nessuno di loro tornerà più qui. Per me è diverso. Sono fortunata.
Imbocchiamo l’ingresso del parco nazionale del Chomolungma, questo è il nome dell’Everest in tibetano.
La strada è dissestata, incrociamo una jeep impantanata che aiutiamo a disincastrarsi dai fanghi col traino.
La strada è lunga e difficoltosa, nonostante oramai venga asfaltata di continuo, il Ghiacciaio di Rongpuk e la montagna stessa con lo spostamento dei detriti, fa si che sia sempre da rifare.
Due sono le vie d’accesso al Campo base: si può prendere la strada da Shegar a est che si diparte dalla strada principale (innesto situato a pochi chilometri a ovest del checkpoint di Shegar) e raggiunge, dopo una salita di 20 chilometri, il passo Pang La (5.200 m). Quindi, dopo altri 60 chilometri, approda al monastero di Rongpuk (5.030 m) dove è possibile pernottare, oppure si può prendere la strada da Tingri a ovest (4 ore di jeep su sterrato), che è anche percorribile in tre giorni di trekking, e si snoda, nel primo tratto, lungo il corso del Ra Chu, quindi dopo aver superato il villaggio di Zemukh, si immette nella strada che arriva da Shegar e risale il sinuoso Rong Chu. Noi abbia preso quest’ultima via descritta. Le due strade appunto si ricongiungono insieme nell'ultimo tratto verso la morena del ghiacciaio di Rongpuk, fino ad arrivare al posto di controllo dei permit di accesso, che si trova qualche tornante più in giù, prima del monastero di Rongpuk, il monastero più elevato del mondo.

Occorre un quarto d’ora in fuoristrada per raggiungere il campo tendato a circa 5.100 metri dove, durante la primavera e l’estate, si può pernottare in tipiche tende tibetane riscaldate, come quelle dove abbiamo pernottato noi. Da qui si devono lasciare i mezzi propri.
Noi, dopo aver depositato i bagagli nella tenda che ci è stata assegnata, abbiamo dovuto proseguire per altri 3 chilometri coi bus pubblici a pagamento per raggiungere il Campo Base Everest a 5.200 metri, da dove si sarebbe dovuta vedere tutta la parete nord dell’Everest che impera davanti allo spettatore con i suoi 3.648 metri di ghiaccio, roccia e neve. In tutto 8.848 metri di spettacolo della natura.
Purtroppo sta volta abbiamo visto solo nuvole basse, e solo al tramonto si è intravisto il profilo annebbiato della grande montagna.
Non ci è rimasto altro da fare che cenare nella nostra tenda e stare a raccontarcela dentro i nostri sacchi a pelo. Poi ho messo su un po’ di musica fino a che non è arrivato il sonno per tutti gli amici, e mi son messa a dormire pure io.

Durante l’autunno e l’inverno spesso le tende vengono smantellate e ci si ferma a dormire o nel Monastero di Rongpuk o nelle guest house, e viene a mancare il servizio di bus pubblici. E’ quindi possibile raggiungere il campo base anche con i mezzi propri o a piedi, dipende dalle regole che vengono cambiate ogni anno dal Tibet Tourism Bureau. Un tempo c'era un campo tendato dove si poteva prendere un tea caldo e qualche stuzzichino e, se concordato col proprio tour operator, vi si poteva anche dormire, in compagnia degli Sherpa nepalesi o delle guide locali.
Adesso le tende non ci sono più, sono state trasferite 3 chilometri più in basso e al Campo Base c'è ora un posto militare con tanto di caserma, sbarra di controllo e una casetta dove bisogna lasciare le proprie generalità ai militari. L'unica cosa rimasta uguale, oltre al panorama da brividi, è la ripartizione dell'area: appena dopo il presidio militare, sopra una collinetta, c'è quella riservata ai turisti invasa dalle bandiere di preghiera, più a sud verso la montagna si apre l'area destinata alle spedizioni alpinistiche senza libero accesso ai turisti.
Al mattino ci siamo svegliati sotto la neve, e nulla si è aperto all’orizzonte. Mi spiace un sacco per i ragazzi, che, per quanto siano comunque felici di essere qui, sono estremamente delusi dal fatto di non aver trovato bel tempo.
VERSO ZHANGMU
Saliamo in jeep e iniziamo la lunga tappa di discesa che ci porterà a Zhangmu.

La strada è bella infangata, ma nulla in confronto a com’era molti anni fa. La manutenzione fatta ogni anno è una gran cosa per la sua percorribilità.
Il meteo avverso non ci molla neanche al LangpaLa, che è uno dei passi più suggestivi di questa meravigliosa Friendship Highway, l’autostrada del cielo che connette il Tibet al mio amato Nepal. Anche quest’ultimo passo è avvolto dalle nebbie delle nuvole basse. Non vedremo lo Shisha Pangma, l’unico 8000 totalmente in territorio Tibetano, ma solo le bandiere di preghiera sventolare alle folate di vento.
Dopo averne parlato coi ragazzi, in viaggio chiamo Francesco e mi accordo per passare due notti al Planet di ritorno dal Tibet e di lasciare la compagnia dei miei compagni di viaggio.
Pian piano in tanto si scende e le nuvole si diradano e il paesaggio cambia e si incunea in una valle stretta, verde, con rocce strapiombanti e strepitose cascate, fino ad arrivare a quell’orrendo villaggio di Zhangmu, posto di frontiera che è cresciuto in verticale sui tornanti zigzaganti di questa profonda valle che va a finire in Nepal.

Dopo una interminabile attesa per la fila di camion che attendono di immettersi a imbuto in coda per passare la frontiera l’indomani mattina, arriviamo all’hotel e troviamo Roberto molto provato. Mi fa impressione vedere quanto è magro, e che occhi infossati e sofferenti abbia. Sono tanto dispiaciuta che per lui questo viaggio, che per noi è stato così propizio, sia stato così ingrato. So bene che per lui era invece un sogno da molti anni.
Sta volta l’unica cosa buona di questa sosta qui è stato trovare posto nell’unico hotel decente del villaggio, lo Zhangmu Hotel (da non confondere con il famigerato “Zhangmu Gang Gyan Hotel”). La sera ceniamo in un ristorantino cinese lì vicino e, dopo una chiacchierata in reception, andiamo a nanna.
IL RITORNO A CASA IN NEPAL
La mattina presto ci mettiamo in coda per tentare di rientrare tra i fortunati che riusciranno a varcare il confine. Saluto Tashi, con la speranza di rivederlo e gli chiedo di portare i miei ringraziamenti a Pelma. Passiamo e attraversiamo il Ponte dell’Amicizia. Siamo in Nepal, sono a casa!
Dopo non poche trattative si riesce a recuperare un van a Kodari, il confine dalla parte nepalese, e ci si avvia sulla lunga e tortuosa strada che ci porterà a Bhaktapur.
Informo  anche Roberto che io mi fermerò lì. Non me la sento di stare a Kathmandu al Norbulingka. Voglio stare a Bhaktapur a casa, tanto più che l’indomani ci sarà il fantastico festival di Gai Jatra. Motivo  per cui, in pre partenza, avevo chiesto di tornare in Italia qualche giorno dopo. Sono tutti d’accordo a parte lui che pare essere ormai totalmente distaccato da tutti noi.
Saluto tutti e mi faccio lasciare al tourist bus park dove c’è Vishnu in motocicletta che è venuto a prendermi.
Finalmente riabbraccio i ragazzi, la mia famiglia nepalese del Planet. E termino questo viaggio in compagnia di grandi amici, con la gioia di poter partecipare al più bel festival estivo della mia città nepalese preferita.

Per avere più info dettagliate sul Tibet se vi va leggetevi la mia Guida di Viaggio pubblicata da Polaris Editore

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